“Non tutte le tempeste arrivano per distruggerti la vita. Alcune arrivano per ripulire la tua strada”.
Questa frase attribuita a Seneca contiene lo stesso prezioso messaggio dell’antica parabola del contadino cinese; e cioè che non dovremmo disperarci quando ci accade qualcosa che ci sembra negativo perché può capitare che i cambiamenti inizino in modo traumatico, se non persino drammatico, ma nel tempo si rivelino necessari e positivi.
Chi ha letto il mio primo libro “Le coordinate della felicità” sa che ho scoperto questa lezione sulla mia pelle quando sono stato costretto a rinunciare al mio sogno di trasferirmi a vivere in Canada e ho dovuto far ritorno a Torino.
All’inizio ero disperato, ma proprio grazie a questo evento apparentemente sfortunato sono poi diventato un nomade digitale, realizzando due sogni ancora più grandi: vivere viaggiando e fare della mia passione per la scrittura un lavoro.
Negli ultimi due anni moltissime persone hanno vissuto un’evoluzione simile. Inizialmente, infatti, la pandemia ha avuto un impatto fortemente negativo su chiunque. I lockdown, le limitazioni e la paura dilagante hanno messo a dura prova la salute mentale di milioni di persone.
Nel tempo, però, alcuni hanno deciso di cambiare prospettiva e vedere questa tempesta non come una forza distruttrice ma come la possibilità di un nuovo inizio. Come l’occasione attesa da molto tempo di cambiare finalmente vita.
Great Resignation, ovvero lasciare il posto fisso in massa
Di quante persone stiamo parlando? 4.6 milioni di persone negli Stati Uniti e circa mezzo milione in Italia: sono questi coloro che nel solo 2021 hanno rassegnato spontaneamente le loro dimissioni da un posto fisso.
Numeri da record, che non si erano mai registrati prima. E non solo: secondo alcuni studi, nei prossimi anni il 40% dei lavoratori dipendenti in Occidente lascerà il lavoro spontaneamente.
Dei quasi cinque milioni che lo hanno già fatto negli Stati Uniti, il 36% non aveva nessun’altra opportunità professionale tra le mani. Da un lavoro fisso e sicuro alla disoccupazione.
Perché lasciare il posto fisso?
Il burnout
Cosa spinge milioni di individui a prendere parte a questo movimento chiamato Great Resignation (Grandi Dimissioni) o The Big Quit (Grande Uscita)?
Da un lato è una questione di burnout. Ho dedicato un articolo specifico a questa sindrome che sta colpendo sempre più persone. Si tratta di un fortissimo stress causato dal lavoro che comporta sintomi come forti emicranie e umore depresso, ma anche problemi di natura fisica (infarti in primis).
Un tempo il burnout era un problema dei pochi workaholic, i maniaci del lavoro, ma oggi l’atteggiamento iper competitivo, il non staccare mai e la produttività a tutti i costi sono alla base della nostra cultura del lavoro. E quindi sempre più persone soffrono di burnout.
C’è chi ne esce andando dallo psicologo, assumendo farmaci e parlandone con colleghi e superiori. E c’è chi invece decide di lasciare il posto fisso e cambiare completamente vita.
La silenziosa disperazione di Thoureau
Da un lato potremmo dire che Henry David Thoureau ci aveva visto lungo quando, nel 1846, osservando la neonata società industriale da lontano (in quegli anni viveva da solo nei boschi), scriveva che “le masse di uomini vivono di una silenziosa disperazione“.
Bastava guardarsi intorno prima del 2020 per rendersi conto di come la nostra società si fondasse su un paradosso: siamo tanti, viviamo a lungo, abbiamo tutto, eppure non siamo mai stati così soli e infelici.
Anche prima della pandemia si registravano vendite di ansiolitici e sonniferi in costante crescita e problemi legati alla salute mentale dilaganti. In un rapporto del 2018, l’OMS indicava nella depressione la malattia più diffusa al mondo nel 2030.
C’erano anche dei segnali più evidenti: bastava fare una passeggiata in una qualsiasi grande città in un mercoledì mattina qualsiasi per osservare stress, infelicità e rabbia repressa sui volti delle persone.
Sempre di corsa, sempre stanchi, sempre più insoddisfatti. Eppure, nonostante i segnali chiari di una disperazione dilagante, questo sentimento era anche silenzioso.
Le persone se lo tenevano dentro, lo soffocavano con vizi e routine, perché quei pochi che si ribellavano all’assurdità di una vita spesa a lavorare per pagare bollette, indebitarsi e sopravvivere, venivano additati come figli di papà, millantatori e poveri idioti.
Ne ho letti a centinaia di commenti così sotto agli articoli di questo blog. Poi, negli ultimi due anni, qualcosa è cambiato. Oggi questi commenti sono sempre meno, perché sempre più persone hanno avuto il coraggio di aprire gli occhi.
Cosa è cambiato con la pandemia
Prima la silenziosa disperazione si teneva a bada grazie allo shopping del sabato pomeriggio, alle serate in discoteca, alla partita di calcio della domenica. Ma anche grazie ai concerti, alla palestra e alle attività sportive, ai viaggi durante i weekend.
Poi, improvvisamente, tutto questo ci è stato tolto. Milioni di persone si sono ritrovate chiuse in casa, senza la possibilità di andare a fare shopping, andare allo stadio, fare un viaggetto, andare a correre.
Questo isolamento ha costretto tanti a restare soli con i propri pensieri, un’attività estremamente delicata e talvolta pericolosa. Già Blaise Pascal, quattrocento anni fa, diceva che tutti i problemi dell’essere umano nascono dalla sua incapacità di stare per venti minuti senza fare niente in una stanza vuota.
Purtroppo molti ne sono usciti con la salute mentale a pezzi. Altri hanno vissuto (e vivono tutt’ora) in trepidante attesa che tutto tornasse alla normalità.
Altri ancora hanno invece guardato dritto negli occhi la silenziosa disperazione che portavano dentro. Hanno risposto a quelle domande scomode che nella quotidianità soffocavano gettandosi sullo smartphone o l’ennesima serie tv. Si sono resi conto di cosa significa avere molto tempo, e quindi anche di quanto il lavoro gliene rubasse prima.
Hanno capito che la vita a cui non vedevano l’ora di tornare non era vita, ma mera sopravvivenza. E così hanno deciso che a quella normalità non sarebbero mai più tornati.
Great Resignation: cosa fa chi lascia il posto fisso?
La domanda sorge spontanea: va bene lasciare il lavoro e cambiare vita, ma che si fa una volta liberi?
All’interno della Great Resignation individuo tre macro-categorie.
Chi passa dal lavoro tradizionale a quello in remoto
La prima è quella di chi ha iniziato a lavorare in smart working e ha deciso di non tornare più indietro. Hanno chiesto ai superiori di poter continuare a lavorare in remoto e quando gli è stato ordinato di tornare dietro a una scrivania per otto ore al giorno, hanno dato le dimissioni.
Chi appartiene a questa categoria ha trovato o sta cercando lavori uguali, simili o completamente diversi, purché si possano svolgere completamente in remoto.
Ho conosciuto una ragazza che lavorava come graphic designer in una grande agenzia pubblicitaria e ora svolge lo stesso lavoro ma come freelance mentre viaggia per il Sud America. Ho anche conosciuto un uomo che lavorava in ufficio e ora si sta reinventando articolista. Lavora a bordo del suo camper, in compagnia del suo cane.
Chi vuole cambiare vita, più che il lavoro
La seconda categoria è quella di chi ha lasciato il lavoro per rallentare. Non si tratta per forza di passare al lavoro in remoto, ma di cambiare il ritmo della vita.
Ho conosciuto un uomo che dopo aver lavorato per anni per una multinazionale del settore alimentare adesso fa il librario in un meraviglioso paesino della Sardegna. I libri sono la sua passione e adesso ha molto tempo da passare con suo figlio piccolo.
Ho anche conosciuto una coppia che crea e vende online guide turistiche sulla loro regione, oltre ad organizzare tour ed eventi. Prima avevano lavoretti precari e sottopagati, ora si mantengono raccontando la bellezza delle loro terre e passano gran parte delle loro giornate all’aria aperta.
Chi si vuole prendere una pausa per godersi la vita
Infine, la terza categoria è quella di chi ancora non ha le idee chiare su cosa fare ma non ha alcuna fretta.
Si tratta di persone che durante i vari lockdown pensavano, ad esempio, a quel grande viaggio che sognavano da sempre e non avevano mai fatto. Uomini e donne che hanno passato anni a preoccuparsi del futuro finché non hanno capito che il futuro è qui e ora.
Non possono smettere completamente di lavorare, ma hanno qualche risparmio da parte e il loro unico obiettivo è godersi un po’ la vita. Fare come Alessio, il protagonista del mio ultimo romanzo, che un giorno sceglie di impegnarsi a cancellare un po’ di rimpianti accumulati in anni di responsabilità e nient’altro.
Per i più giovani questa svolta prevede lasciare i primi lavori per fare volontariato all’estero o il Working Holiday in Australia o anche solo 6 mesi in viaggio in Asia.
Per gli altri è un anno sabbatico… o magari due, tre, cinque. Il periodo varia in base alla propria situazione economica e al proprio spirito di adattamento, ma l’idea è sempre quella di riprendere in mano la propria vita e smettere di rimandare la propria felicità.
Il primo passo: superare la paura del cambiamento
Uno degli insegnamenti che più mi hanno cambiato la vita è quello del fiume e della roccia che racconto nel mio libro “Succede sempre qualcosa di meraviglioso“:
Uno dei concetti base del Buddhismo è che tutto è in continuo mutamento. Tutto cambia, sempre. Nulla resta mai uguale a se stesso. Cambiamo noi e cambia la realtà intorno a noi. Per questo motivo, la vita è un fiume. Scorre in una sola direzione, in avanti, e non c’è modo di far scorrere la sua acqua indietro. Ora, tu puoi avere due atteggiamenti nei suoi confronti. Essere una roccia, ovvero conficcarti nel suo letto e opporti allo scorrere dell’acqua. Il che implica sforzo, sofferenza, tensione e stress. Oppure puoi scegliere di assecondare quel flusso infinito e scorrere insieme all’acqua. Questo vuol dire accettare che tutto cambia, sempre. Diventare tu stesso il fiume, diventare tu stesso Vita
Tratto dal mio libro “Succede sempre qualcosa di meraviglioso”
Questo insegnamento buddhista offre molti spunti di riflessione ma il più importante, almeno per me, è che opporsi al cambiamento è assolutamente inutile. La vita stessa è un continuo cambiamento e noi possiamo solo scegliere se assecondarlo e indirizzarlo nel migliore dei modi oppure subirlo.
Ci sono tante persone che non hanno mai voluto cambiare. Avevano le loro idee, il loro stile di vita, le loro cose e le loro illusorie sicurezze. Non avrebbero mai cambiato un lavoro che detestano, è troppo rischioso!
Poi dal nulla arriva una pandemia, un evento globale che sconvolge la vita di ognuno di noi come un fiume in piena. Alcuni, nonostante le mille precauzioni, perdono il lavoro. Altri persino la salute, o la vita.
E allora perché avere tutta questa paura di cambiare? È vero, questo terrore è radicato nella nostra cultura, noi italiani siamo allergici alle novità e a tutto ciò che non conosciamo, ma se vogliamo vivere una vita piena e senza rimpianti, se vogliamo sentirci realizzati, dobbiamo necessariamente rompere questi schemi.
Cambiare va bene!
Provare a cambiare e non farcela, va bene.
Avere il coraggio di fare ciò che ti rende felice, va bene.
Voler rallentare e minimizzare, va bene.
Cercare un nuovo lavoro, va bene.
Andare controcorrente, va bene.
Cambiare percorso a 50 anni, va bene.
Cambiare università a 20 anni, va bene.
Cambiare città a 30 anni, va bene.
Se c’è una lezione che dobbiamo portarci dietro da questi due anni è che se non siamo noi a cambiare la nostra vita, la vita cambierà noi. Prima o poi succederà. E allora non aspettare che accada qualcosa di grave e sovrastante per trovare la forza di guardarti dentro e superare la tua silenziosa disperazione.
Milioni di persone stanno stravolgendo tutto quanto nel nome di un benessere vero, interiore, sano. Stanno lasciando e cambiando lavoro per avere più tempo, salute e libertà invece di inseguire solo i soldi.
Questo conduce, a volte, a lasciare il posto fisso. Questa è la “Great Resignation“. Se anche tu che stai leggendo senti la necessità di cambiare, ricordati solo di una cosa.
Cambiare, va bene.