Dopo essermi diplomato ed essere uscito dalla grande bolla del liceo, mi ritrovai come quasi tutti i miei coetanei a dover scegliere tra il lavoro e l’università.
Optai per la soluzione che mi appariva più scontata: continuare a studiare.
Non fu una scelta pienamente consapevole, molto semplicemente era ciò che facevano tutti i miei amici e conoscenti, quindi credevo che fosse la strada giusta anche per me.
Una volta all’università, però, le mie convinzioni si sgretolarono: nell’ambiente universitario mi sentivo totalmente fuori posto, quello che studiavo non mi interessava minimamente e intorno a me vedevo solo persone (professori e studenti) prive di alcun tipo di passione per ciò che le portava ogni giorno in quelle aule.
Sicuramente non tutte le università sono così, ma nella mia non trovavo davvero alcun motivo valido per continuare. Avevo quindi due possibilità davanti a me: continuare a studiare, laurearmi, fare felici tutti in famiglia e poter dire di aver seguito le regole alla perfezione; oppure tornare indietro e prendere l’altra direzione del bivio, quella del lavoro.
Decisi di lasciare l’università e andare a lavorare. E nello stesso momento in cui presi quella decisione, mi ritrovai per la prima volta a ragionare su cosa sia effettivamente il lavoro. Come tutti, ero convinto che il lavoro non fosse altro che un mezzo per fare soldi.
Negli anni successivi avrei compreso che limitarsi a questa visione così ristretta, è uno dei motivi per cui milioni di persone sono così insoddisfatte della propria vita. E avrei anche capito che smettere di lavorare si può fare.
Non cercavo un lavoro, ma un senso alla mia vita
Dopo aver lasciato l’università, non avevo la minima idea di cosa fare e in che direzione muovermi. Inviai il mio curriculum in giro completamente a caso, alla ricerca di un lavoro qualsiasi.
A Torino, però, non trovavo nessun lavoro. Non sapevo nemmeno come cercarlo, né dove. Mi sentivo solo e giù di morale: tutti lavoravano, tutti sembravano avere uno scopo.
Avrei poi scoperto che in realtà la maggior parte delle persone vive per inerzia, con il pilota automatico, costruendosi vite basate su non-scelte e casualità. Ma in quel momento mi sembrava che tutti avessero le idee chiare, mentre io fossi immerso nella più totale confusione.
Alla fine trovai un solo lavoro: il dog-sitter. Guadagnavo cinque euro all’ora per portare a spasso un cane. Compresi in fretta che non avrei potuto fare quello per tutta la vita e che sicuramente non mi sarei potuto mantenere così.
Nel frattempo nessuno sembrava in grado di aiutarmi, perché c’era un’incomprensione di fondo: io non cercavo un lavoro, cercavo di capire cosa volessi fare da grande nella vita.
Un lavoro a caso non è la soluzione
Le persone che avevo intorno, invece, mi dicevano semplicemente di trovare un lavoro, uno qualsiasi. Come se quella fosse la soluzione a tutto, come se un lavoro a caso potesse dare un senso a tutta la mia vita.
No, non poteva essere quella soluzione. L’irrequietezza cresceva forte dentro di me. Vedevo i miei coetanei proseguire brillantemente nel percorso universitario, mentre io ero quello che portava il cane degli altri a fare le passeggiate. Mi chiedevo perché avessi lasciato l’università. Forse, continuandola, avrei trovato quello scopo che cercavo.
Alla fine, in preda a un’agitazione che non riuscivo più a gestire, decisi di scappare.
Proprio così: volevo scappare il più lontano possibile da quella città che non avevo mai amato e da quelle persone che non riuscivano minimamente a capirmi e a comprendere che il problema non era trovare un lavoro, ma trovare un senso, uno scopo nella vita.
Non volevo diventare un “lavoratore”, volevo realizzarmi, esprimere un potenziale che faticavo a scovare dentro di me ma sapevo che c’era.
Così, decisi di scappare. E scappai il più lontano possibile.
Decine di lavori diversi per giungere a una conclusione
Con i pochi soldi che avevo da parte, presi un biglietto di sola andata per l’Australia. L’altra parte del mondo, letteralmente. Non voglio stare qui a raccontare nel dettaglio quell’esperienza, anche perché l’ho già descritta per filo e per segno (insieme a tutte le altre esperienze che menzionerò di qui in poi) nel mio libro “Le coordinate della felicità“.
Mi limito a scrivere un riassunto di quello che è successo quando ho deciso di scappare da quella situazione di infelicità che vivevo in Italia.
Nell’ordine, negli otto anni successivi al giorno della mia partenza, sono successe queste cose:
- ho vissuto e lavorato in Australia per un anno;
- sono tornato in Italia per un periodo;
- sono andato a vivere e lavorare in Canada;
- sono tornato in Italia per un periodo;
- ho iniziato a vivere viaggiando per il sud-est asiatico;
- ho trovato “casa” a Bali e ne ho scelta una “mobile” per quando sono in Europa (un camper del 1983).
In questi otto anni in giro per il mondo, ho svolto innumerevoli lavori. Nell’ordine:
- il dog-sitter;
- l’aiuto cuoco in una cucina con un clima militaresco;
- il cameriere in un locale che si affacciava su spiagge infinite e sull’Oceano Indiano;
- l’operaio in una fabbrica dove ho assistito alla macellazione di migliaia di polli e ho deciso di diventare vegetariano;
- il commesso in un negozio gestito da una famiglia iraniana;
- il giocatore di poker;
- il panificatore in una piccola panetteria;
- il commesso in una libreria;
- l’addetto agli impasti di una mega fabbrica del pane;
- il pizzaiolo in un locale super affollato in pieno centro a Vancouver;
- l’articolista per siti web;
- l’autore di un blog (il mio, quello su cui ti trovi ora);
- lo scrittore.
Questo girovagare per il mondo era iniziato con l’intenzione di trovare un lavoro. Alla fine, invece, ho trovato lo scopo della mia vita. E durante questo processo ho capito anche un’altra cosa: smettere di lavorare è assolutamente possibile. Ma per farlo, è necessario cambiare radicalmente la propria visione di cosa sia il lavoro.
Cambiare il modo di concepire il lavoro
Che cos’è il lavoro? Non è una domanda che si sente spesso. Anzi, si può dire che sono ben poche le persone che se la pongono. Il motivo è presto detto: fin da quando siamo bambini, ci viene insegnato che il lavoro è ciò che facciamo per guadagnare soldi. Nient’altro.
In fondo è la verità: lavoriamo per guadagnarci da vivere. Ma è accettabile che questo sia l’unico motivo?
Pensaci bene prima di rispondere: vuoi davvero che l’unico motivo per cui ti fai buttare giù dal letto da una sveglia ogni mattina sia un motivo di natura economica?
La risposta, te lo assicuro, non è così semplice. O almeno, non dovrebbe esserlo. Perché se l’unico motivo per cui lavori è per guadagnare soldi, è estremamente probabile che tu non sia propriamente felice.
Non solo perché numerosi studi dicono che le persone che pensano che la felicità sia solo una questione di soldi tendono a cadere molto più facilmente nella depressione. Anche perché come potresti essere felice se alla domanda “perché ogni giorno impieghi 8 ore del tuo tempo a lavorare” l’unica risposta che sai dare è “per guadagnare soldi?“
Oltretutto, magari parliamo di una quantità di soldi ben inferiore a quella che meriteresti, sufficiente a malapena per sopravvivere fino alla fine del mese. Soldi che, al netto delle spese, delle tasse e della salute che perdi per guadagnarli, sono molti meno di quelli che pensavi.
Il tempo è tempo
Come hai potuto leggere, ho svolto numerosi lavori differenti nella mia vita. Questa circostanza mi ha portato a chiedermi più volte quella domanda – “cos’è il lavoro?” – e alla fine ho capito che il lavoro non è solo un modo di guadagnare soldi.
Il lavoro è semplicemente tempo della nostra vita. Le ore che passi a lavorare, sono lunghe come le ore che passi a casa.
La tua vita non dovrebbe essere scandita dalle otto ore che passi in ufficio ma dalle ore che trascorri coscientemente: se ti svegli alle 07:00 di mattina e vai a dormire alle 23:00, hai 16 ore di vita attiva nella tua giornata.
Il tempo è tempo, non c’è alcuna distinzione. Non possiamo in alcun modo fermarlo, allungarlo, conservarlo, rubarlo o alternarne lo scorrimento. Il tempo passa sempre alla stessa velocità, che tu sia al lavoro a fare fotocopie oppure a casa a guardare la televisione.
C’è solo una cosa che possiamo fare con il tempo: valorizzarlo. E uno delle cose più importanti che puoi fare per riuscire a valorizzare il tuo tempo è scegliere con la massima cura il tuo lavoro.
Liberarsi dalla schiavitù mentale del lavoro
So che molti penseranno: “Scegliere il lavoro?! Già è tanto se ne ho uno e se lo trovo me lo tengo stretto, qualsiasi esso sia!“
Se la pensi in questo modo, permettimi di darti un consiglio: liberati il prima possibile da questa forma di schiavitù mentale.
Lo dico senza alcuna presunzione, ma con l’esperienza di una persona che ha lavorato in ambiti molto differenti in tre continenti diversi e che è passato dall’essere un dipendente a un freelance a un imprenditore di se stesso.
Se ti hanno convinto che la tua vita debba dipendere in tutto e per tutto dal primo lavoro che ti capita tra le mani, ti sei messo da solo le catene ai piedi e alle mani. Viaggiare e vivere all’estero mi ha spalancato gli occhi su questo aspetto, mostrandomi che il mondo è pieno di alternative a questa schiavitù che nel mio libro la chiamo “La grande legge dell’Uno“.
A me dicevano di cercare un lavoro, un lavoro qualsiasi. Me la vendevano come la soluzione a ogni mio problema esistenziale. Eppure avuto molti lavori “qualsiasi” e non hanno risolto un bel niente, anzi, svolgere questi lavori non ha fatto altro che aumentare l’infelicità, l’insoddisfazione, la confusione e la rabbia che avevo dentro.
Poi, a un certo punto, ho deciso di smettere di accettare lavori casuali e di fare di tutto per essere io a sceglierli.
Questo processo mi ha liberato. Mi ha fatto sentire padrone della mia vita e del mio destino. Ho anche scelto lavori che ho poi scoperto non essere adatti per me, però almeno li avevo scelti io.
È stato proprio iniziando a ragionare in questo modo che alla fine sono riuscito a smettere di lavorare. Perché mi sono costruito un lavoro basato su una delle mie due più grandi passioni: la scrittura. Lo stesso lavoro che mi ha permesso di fare dell’altra mia più grande passione – viaggiare – uno stile di vita.
I libri di Bukowski mi hanno aiutato moltissimo a cambiare modo di ragionare e a liberarmi. Anche per questo motivo, ho deciso di aprire il mio romanzo “Come una notte a Bali” con una sua citazione, ma ce n’è un’altra forse ancora più adatta a questo articolo:
Qualunque stronzo è capace di trovarsi uno straccio di lavoro; invece ci vuole cervello per cavarsela senza lavorare
Che ti piaccia o no, quella che hai appena letto è la pura verità. E ti assicuro che smettere di lavorare è possibile ma per farlo è necessario trovare il tuo Ikigai.
Come smettere di lavorare: trova il tuo Ikigai
I giapponesi sono uno dei popoli più produttivi al mondo. Lavorano a ritmi frenetici e spesso si identificano totalmente nel lavoro che svolgono.
Personalmente credo che sia un atteggiamento nocivo e sbagliato, perché ognuno di noi è molto più di ciò che fa per guadagnarsi da vivere. Non sei un operaio, un impiegato in banca, un imprenditore o una casalinga: sei molto più di queste banali etichette.
Proprio perché i giapponesi hanno un rapporto così intenso (e spesso malsano) con il lavoro, si interrogano da sempre su cosa sia davvero. Fanno quello che alle nostre latitudini fanno in pochi: provano a dare al lavoro un significato nuovo, diverso… migliore.
Il concetto di Ikigai ne è un esempio molto interessante.
Teoricamente, l’Ikigai rappresenta lo scopo della nostra vita, il motivo per cui vivere. Ma in realtà per i giapponesi l’Ikigai è fortemente legato al lavoro. Ed è giusto che sia così: il lavoro occupa gran parte delle tue giornate e quindi della tua vita.
Come scrivevo in precedenza, non puoi considerarlo semplicemente come un mezzo per fare soldi, altrimenti finirai per odiare ogni ora trascorsa a lavorare. Odierai quindi buona parte della tua vita.
I giapponesi identificano l’Ikigai, ovvero lo scopo della vita, con quattro caratteristiche:
- ciò che ti piace fare;
- ciò che sai fare;
- ciò che può aiutare il mondo o gli altri;
- ciò con cui puoi guadagnarti da vivere.
L’ultimo punto è fondamentale per trasformare il lavoro da semplice mezzo per fare soldi a parte integrante di una vita felice e realizzata.
Fai del tuo lavoro una passione e non lavorerai mai più
Uno dei lavori che più ho odiato nella mia vita è stato quello di aiuto cuoco. Lavoravo nella cucina di un ristorante italiano a Freemantle, in Australia. Lo chef era un uomo violento, negativo e pieno di rabbia. Il mio lavoro era pelare patate e tagliare verdure tra un insulto e l’altro.
Odiavo trascorrere il mio tempo lì dentro e sognavo davvero di smettere di lavorare per sempre.
Poi ho lavorato in un grande panificio di North Vancouver. Odiavo anche quel lavoro, perché era ripetitivo, noioso e non dava alcun tipo di soddisfazione: versavo sacchi di farina dentro enormi impastatrici, senza nemmeno vedere che aspetto avesse il pane che usciva da lì. Tutte le notti, mentre il mondo dormiva, io ero immerso in farine di produzione industriale e rumori assordanti.
Sia quando svolgevo il lavoro di aiuto-cuoco, sia quando lavoravo nel panificio, mi capitava spesso di avere un pensiero sconvolgente e assurdo: “Oggi vorrei che il tempo passasse velocemente“.
Volevo intenzionalmente consumare in fretta il bene più prezioso che abbiamo, l’unico che non possiamo comprare o aumentare. Rendermi conto della gravità di questi pensieri, mi spinse a cercare un lavoro che amassi svolgere. E lì ci fu la svolta.
Scegliere il lavoro giusto mi ha donato la felicità
Una delle mie più grandi passioni era sempre stata la scrittura, così decisi di provare a vivere di quello. Follia? Sì, ma sentivo che ne valeva assolutamente la pena di provarci, la potenziale ricompensa era in grado di cambiarmi la vita. Vivere di scrittura? Sarebbe stato come smettere di lavorare.
Non sapendo da dove iniziare, inviai candidature a decine di siti web proponendomi come articolista. Iniziai a lavorare gratuitamente, poi ricevetti un piccolo compenso, poi aumentai i clienti… dopo un anno dal primo articolo, mi mantenevo con la scrittura online.
E nel frattempo viaggiavo, perché quel lavoro potevo svolgerlo in remoto, mentre giravo per il mondo.
Così, dire di no a lavori casuali e scegliere consapevolmente il modo in cui guadagnarti da vivere, mi ha donato una felicità meravigliosa e inimitabile.
Solo tu puoi sapere qual è il tuo
A una presentazione del mio libro, una persona mi ha chiesto quante ore lavoro al giorno. Non ho saputo rispondere precisamente, perché oggi il mio lavoro è anche una mia passione. In fondo, il tempo è sempre tempo, siamo noi a suddividerlo in categorie.
Quello che faccio per lavorare lo farei anche per divertimento. Quando lavoravo in fabbrica, scrivevo nel tempo libero. Ora scrivo per mantenermi e quindi non c’è nemmeno più una distinzione tra lavoro e tempo libero.
So che molti penseranno: “Certo ma non tutti possono scrivere per vivere“. Altri aggiungerebbero: “E se tutti diventassimo scrittori, chi farebbe il pane?“
La risposta è questa: la scrittura è il mio Ikigai. Non è quello di ognuno di noi, è il mio.
Ho lavorato nell’ambito della panificazione e ho conosciuto persone che odierebbero fare il mio lavoro. Perché non amano leggere e scrivere e invece sono felici quando possono fare qualcosa di pratico e manuale.
A questo mondo, ci sarà sempre chi preferirà fare il pane o costruire case o raccogliere pomodori all’aria aperta invece di passare diverse ore ogni giorno davanti allo schermo di un computer.
La soluzione non è scrivere ma trovare un lavoro che ami. E così smettere di lavorare. O meglio, smettere di fare un lavoro che ti fa odiare la vita.
Smettere di lavorare è possibile
Sento spesso dire che la felicità è non dover mai più lavorare.
Non sono assolutamente d’accordo: le persone più felici che ho conosciuto nella mia vita non sono quelle che non lavoravano. Ho conosciuto tanti pensionati e disoccupati depressi, ad esempio.
Le persone più felici sono quelle che hanno un lavoro che amano. Loro sì che sono riuscite a smettere di lavorare.
Viaggiando ne ho conosciute tantissime, dall’ex impiegato delle poste diventato un insegnante di immersioni su un’isola paradisiaca alla famiglia che gestisce un bed&breakfast a Bali alla ragazza che ha aperto un’agenzia turistica a Maiorca e sta tutto l’anno con le infradito.
Smettere di lavorare è assolutamente fattibile ma per farlo devi sforzarti e impegnarti al massimo per trovare il tuo Ikigai, lo scopo della tua vita. E poi devi trasformare quella passione in un lavoro.
Magari non è niente di tradizionale o “normale”, come non lo era per me. Magari è viaggiare oppure prenderti cura degli animali o suonare il pianoforte o insegnare ai bambini o fare il pane.
È facile? No. Ma non adottare quella mentalità tipicamente italiana per cui se una cosa è difficile diventa automaticamente impossibile.
Le cose davvero importanti nella vita richiedono impegno e tempo. Se vuoi tutto e subito, allora puoi tranquillamente continuare a lamentarti di quanto odi il tuo lavoro e credere che la felicità sia solo un mito o un’esclusiva di chi ha tanti soldi.
Non è facile fare di una passione un lavoro, ma ne vale assolutamente la pena. Ci sono tanti modi per definire la felicità. Per me, una delle forme più pratiche è pensare:
Se anche non dovessi mai più lavorare, domani mi sveglierei e farei le stesse identiche cose.
È una forma di felicità che appartiene a chi ha già raggiunto l’obiettivo di smettere di lavorare, perché ha fatto del lavoro una parte integrante del suo scopo nella vita.