Non farti definire dal tuo lavoro: sei molto più delle etichette

Photo Saulo Mohana

Cosa succede quando conosci una persona nuova? Per prima cosa vi stringete la mano e dite i vostri nomi.

Se ci pensi, non è qualcosa che hai scelto eppure è il tuo primo tratto distintivo. Non hai scelto di chiamarti Marta, Adolfo, Salvatore o Jennifer.

Ti porti dietro quella parola da quando nasci fino a quando muori ma cosa dice di te il tuo nome? In che modo ti rappresenta? Indica davvero qualcosa sulla tua identità?

No. Niente di tutto ciò. È solo una parola, eppure è la prima cosa che ti chiedono per conoscerti.

Poi ci sono il “come va?” e l’automatico “bene“.

In rapida successione, parole che escono rapide per paura dei silenzi imbarazzanti e di un’analisi più approfondita dell’argomento. A volte non ce ne rendiamo conto ma se rispondiamo alla velocità della luce è perché non vogliamo che la persona che abbiamo davanti noti una crepa nel muro di sicurezza che abbiamo innalzato tra noi e gli altri.

Anche in questo caso non esiste profondità, non c’è alcun reale scambio.

Le persone si guardano negli occhi ma c’è una barriera comunicativa che non fa passare nulla. “Tutto bene” ma potrebbe andare peggio che mai. Vogliamo solo spostare l’attenzione altrove.

L’importanza spropositata del lavoro nel definire il nostro valore

Poi, quasi sempre, il discorso vira su un aspetto a cui diamo un’importanza spropositata: il lavoro. Una delle primissime cose che le persone vogliono sapere di te è il lavoro che svolgi, e sai perché?

Perché vogliono immediatamente inserirti in una categoria. Lo racconto nel mio libro, è un modo odioso di ragionare e interagire con gli altri, ma è certamente il più diffuso. La gente si basa sulle apparenze e costruisce un giudizio in base alle categorie in cui può inserire chi ha davanti.

Ha un buon lavoro? Quanto guadagna? Lavora tanto?

Il lavoro, ma non solo: vieni giudicato in base ad altri elementi come la tua età,  il tuo sesso, la tua religione, il modo in cui ti vesti, l’automobile che guidi e la quantità di soldi che spendi.

Così si crea un meccanismo che annulla la nostra vera essenza. Non siamo più persone, siamo stereotipi viventi.

Nessuno ti chiede mai se sei felice

C’è una frase attribuita al compianto attore Heath Ledger che dice:

Tutti quelli che incontri ti chiedono sempre se hai un lavoro, se sei sposato o se possiedi una casa, come se la vita fosse una specie di lista della spesa. Ma nessuno ti chiede mai se sei felice.

Hai mai provato a chiedere a una persona se è felice? Direttamente e senza giri di parole: sei felice? Io l’ho fatto qualche volta, senza alcuna aggressività e mai con perfetti sconosciuti ma solo con persone che conoscevo da tempo e con cui ero in confidenza.

Ogni volta che ho posto questa domanda, ho suscitato un grande imbarazzo non solo nella persona con cui stavo conversando ma anche negli altri presenti. È una cosa che mi ha sempre fatto pensare e nel tempo ho capito il motivo del disagio causato da quelle due semplici parole: le domande che vanno oltre la superficialità fanno una paura tremenda.

Non c’è spazio per andare oltre alla superficialità

Il primo motivo è che le nostre convenzioni sociali ci inducono a non andare mai oltre alla superficie. Il ciao-comeva-tuttobene è la norma ed è difficile andare contro a tradizioni così consolidate. Il secondo è che si tratta di domande scomode, che la maggior parte delle persone cerca di evitare con forza nella vita di tutti i giorni.

Dedichiamo pochissimo tempo all’introspezione e alla spiritualità. Non ci prendiamo cura di noi stessi, non ascoltiamo quello che ci dice il nostro corpo, né tanto meno cosa ci suggerisce il nostro cuore. Al contrario, andiamo ai mille all’ora e non pensiamo ad altro che a ciò che si trova in superficie.

Costruiamo castelli di aria che sembrano solidi, ma poi basta una semplice domanda per far crollare tutto: sei felice? A quel punto osservi reazioni che vanno dalla rabbia all’indignazione, passando per desolazione e finta sicurezza. Poche, bellissime persone ti rispondono onestamente, che sia in modo positivo o in modo negativo.

Smettere di fingere ed essere se stessi

Pensi che ci voglia tanto coraggio ad essere onesti quando ti chiedono “come va?” o “sei felice?“. In realtà ce ne vuole molto più a indossare una maschera per il resto dei tuoi giorni, fingendo che tutto vada bene, fingendo di aver ben chiara la forma della tua felicità. Non c’è nulla di positivo nel non essere mai se stessi.

Viaggiare ti aiuta moltissimo in questo senso. Ti mostra che non devi aver paura di aprirti al mondo e tirare fuori ciò che hai dentro. Quando viaggi, nessuno ti giudica e se qualcuno lo fa a te non importa nulla. Passi davanti a migliaia di persone che non rivedrai mai più e puoi finalmente smettere di fingere.

Se stai bene, puoi sorridere senza vergognarti della tua felicità. Se stai male, puoi scoppiare a piangere davanti a tutti. Non ti importa di essere giudicato, perché viaggiando scopri che più ti apri e più troverai persone che ti accettano per quello che sei.

Ribellati: smetti di farti definire dal tuo lavoro

Come ho scritto recentemente, ribellarsi è il primo passo per trovare la felicità. Sembra difficile ma non lo è, proprio come una parolina che fatichiamo tantissimo a pronunciare ma che può davvero cambiarci la vita: no.

Imparare a dire di no ti dà sicurezza e soprattutto ti consente di riprendere in mano le redini della tua vita. Talvolta, significa dire di no a qualcosa che ti rende infelice.

E allora ribellati: smetti di farti definire dal tuo lavoro, dalla tua età, dal tuo sesso e da tutto ciò che non ti rappresenta.

La prossima volta che ti chiedono “come stai?” prenditi qualche secondo prima di rispondere. Se ti piace l’idea, potresti prendere ispirazione da questo episodio che racconto nel mio libro:

“Piacere di conoscerti! Cosa fai nella vita?” mi chiese qualche giorno dopo un ragazzo incontrato in un bar di Bangkok in cui stavo lavorando al mio PC.

“Nella vita viaggio e scrivo. Sono due tra le mie più grandi passioni. In questo momento sto leggendo un libro bellissimo: si chiama L’Ombra dello Scorpione. Mi piace un sacco la cucina indiana e thailandese” risposi.

Il ragazzo rimase spiazzato. Tutto si aspettava, tranne quella risposta a una domanda teoricamente facile come “cosa fai nella vita”. Poi fece un sorriso che, ne ero certo, non avrebbe fatto di fronte ad una risposta fredda, vuota e stereotipata.

“E tu? Dimmi qualcosa su di te” gli dissi. “Ma non dirmi quello che fai per guadagnarti da vivere, se non è qualcosa che ami davvero fare: siamo molto più del nostro lavoro.”

Era una frase azzardata da utilizzare con uno sconosciuto, ma avevo imparato che il brivido di lanciarsi è ineguagliabile. E la mia sfrontatezza fu ripagata.

“Okay, non ti dico che lavoro schifoso devo fare per mantenermi” disse ridendo di gusto. “Ti dico cosa sogno: voglio diventare un musicista. Suono la batteria e spero, un giorno, di trovare la band giusta con cui girare il mondo e far impazzire le ragazzine!”

Era una risposta sciocca per certi versi, ma era quello che cercavo. Non mi aveva parlato dell’etichetta che qualcuno aveva appiccicato alla sua vita, ma di un sogno. E ormai avevo scoperto in prima persona che non c’è niente che ci definisca meglio di ciò che sogniamo.

Tratto da “Le coordinate della felicità

Siamo ciò che ci rende felici

Smettila di giudicare gli altri in base agli aspetti più banali della loro esistenza. Siamo molto più del nostro nome, ciò che facciamo per guadagnarci da vivere e dei numeri impressi sulla nostra carta d’identità che indicano quanti anni abbiamo. Tu sei molto più delle etichette che gli altri ti assegnano.

Da un paio di anni, quando mi chiedono “cosa fai nella vita?” rispondo più o meno così: “Viaggio più che posso e leggo tanti libri. Mi piace la musica e adoro il cibo indiano e thailandese. Coltivo tante passioni e inseguo tanti sogni”.

Le persone sono stupite, all’inizio, ma poi, ogni singola volta, vedo un sorriso sincero farsi largo sul loro volto. È quello di chi si chiede: perché non posso rispondere anche io così? Sembra più facile!

Lo è. È più facile, più vero e più gratificante. È più bello lasciarsi alle spalle maschere ed etichette e mostrarsi per ciò che si è davvero. Quando devi parlare di te, non menzionare il lavoro che odi o la città in cui vivi ma di cui non ti sei mai innamorato. Parla di ciò che ti appassiona e ti fa sognare. Siamo ciò che facciamo e ciò che ci rende felici.

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Gianluca Gotto
Gianluca Gotto
Sognavo di lavorare viaggiando, oggi scrivo mentre giro il mondo. Ho aperto Mangia Vivi Viaggia per condividere la bellezza che abbiamo intorno e mostrare che spesso la felicità si trova nelle scelte di vita alternative

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