Quando ho finito il liceo non avevo la minima idea di cosa fare della mia vita. Sembra che a quell’età tutto sia ridotto a due possibilità: proseguire con gli studi iscrivendosi all’Università oppure iniziare a lavorare a tempo pieno.
Una distinzione netta e apparentemente definitiva, che può facilmente portare a mille dubbi esistenziali. D’altronde, dover decidere che strada intraprendere a 19-20 anni è probabilmente uno dei più grandi paradossi della nostra società.
Come si fa a scegliere cosa si vuole fare nella vita senza aver mai lavorato, senza aver mai visto come funziona realmente il mondo e soprattutto senza sapere cosa ci rende felici – criterio in base al quale dovremmo prendere tutte le grandi decisioni?
Se non si appartiene alla schiera di quei fortunati che hanno sempre avuto le idee chiare su ciò che volevano fare da grandi, scegliere consapevolmente in che direzione impostare la propria vita è semplicemente impossibile. Spesso la scelta diventa una non-scelta e così si finisce per diventare un pesce morto che segue la corrente.
L’angoscia post-universitaria
Molti si ritrovano a chiedersi, dai banchi dell’Università, se ce la faranno mai a concludere il percorso di studi e se quel pezzo di carta varrà davvero tutti gli anni spesi sui libri.
Se tutto lo stress dovuto al peso delle responsabilità e tutta l’ansia derivante dal continuo rimandare l’inizio della propria vera vita, quella che va oltre i banchi di scuola, sia servito a ottenere qualcosa di utile per il resto dei tuoi giorni oppure sia stata solo una tragica perdita di tempo.
Perché quando a 22-23-24-25 anni vivi ancora a casa dei tuoi genitori, non hai mai lavorato un giorno della tua vita e non sai cosa si provi ad essere liberi, adulti e indipendenti, diventa poi molto difficile riuscire a mantenere vivo il desiderio di realizzare i propri sogni e costruirsi un percorso proprio, diverso da quello di tutti gli altri.
Diventa una lotta con te stesso e con la società in cui viviamo, che non vede di buon occhio i sognatori e invece adora coloro che rinunciano alla propria essenza più profonda per diventare “normali“. Perché le persone normali fanno girare l’economia, sono prevedibili e quindi sotto controllo.
E poco importa se poi non riuscirai a riconoscere la persona che vedi ogni mattina allo specchio: alla società in cui vivi, questo non interessa. L’importante è che continui a svegliarti ogni mattina, vai a lavorare e spendi il tuo stipendio per cose di cui non hai bisogno. Così funziona il mondo.
C’è il rischio che per quelli come noi la laurea sia una condanna, perché l’università intrappola la tua mente costringendoti a ragionare in un certo modo. Spegne il tuo spirito ribelle, e se fino al liceo puoi permetterti progetti di vita non convenzionali, quando hai una laurea in mano ti senti costretto a seguire certi percorsi. Perché hai investito tre o cinque anni della tua vita a studiare per entrare in un certo settore, e stai pur certo che dopo ti sentirai obbligato a seguire quella strada. Ci sono persone che trovano la massima realizzazione in questo modo. E poi ci sono le teste di cazzo come noi.
Dal mio libro, “Le coordinate della felicità“
Finisci per desiderare di iniziare con la tua vita da adulto il prima possibile, perché sei stufo di essere considerato un ragazzino, uno studente, uno che deve crescere. E così finisci per accettare il primo lavoro di merda che ti capita tra le mani. Anzi, va bene anche uno stage non retribuito, pur di poter convincere le persone intorno a te che ce la stai facendo.
Va bene qualsiasi cosa pur di attraversare quel ponte che ti porta dal mondo astratto della scuola al mondo concreto del lavoro.
La lotta continua di chi sceglie di lavorare subito
Allo stesso tempo, molti ragazzi che dopo il liceo cercano di entrare nel mondo del lavoro si domandano se non abbiano sbagliato tutto rifiutando la scelta apparentemente più saggia e sicura dell’Università, e se un giorno se ne pentiranno.
Perché l’Italia è il paese dell’arte, della cucina, del calcio, della Ferrari, della moda e di tante altre belle cose. Tanti sono convinti che il mondo intero ci ammiri al punto di invidiarci, quasi come se noi fossimo su un piedistallo a brillare della nostra immensa luce mentre tutte le altre nazioni (e le rispettive culture) siano là sotto, piccole e insignificanti, tutte uguali ai nostri occhi abituati alla vera bellezza.
Eppure, siamo anche quel paese in cui per la maggior parte dei giovani trovare un lavoro in grado di garantire un briciolo di indipendenza è un’utopia. Un paese dove quasi la metà degli under 30 non lavora né studia, ma marcisce nella cameretta in cui è nato e cresciuto.
Un paese dove chi studia inizia a lavorare troppo tardi e chi non studia è condannato a lavori deprimenti, avvilenti e degradanti, per cui non si è mai pagati abbastanza considerando tutto il tempo e la salute che rubano.
C’è chi si dice felice di poter guadagnare mille euro al mese per lavorare sei giorni su sette, otto ore al giorno. Io stesso, quando avevo vent’anni, avevo lasciato l’università e non ero altro che il tizio che porta il cane degli altri a fare le passeggiate, ne raccoglie gli escrementi e gli dà da mangiare, desideravo profondamente quella sicurezza.
Avrei lavorato anche sette giorni su sette pur di avere un migliaio di euro al mese, dodicimila maledettissimi euro all’anno. Che poi, volendo vivere da solo, di questi quanti ne sarebbero rimasti alla fine dell’anno? Niente, forse, ma hey, tanto adesso lavori, chi se ne frega.
Fortunatamente non mi capitò mai di ricevere un’offerta di lavoro del genere. È stata una grande fortuna, devo dire grazie alla crisi italiana, perché mi ha spinto ad esplorare le alternative. Decisi che prima di salire su quel treno verso la depressione di una vita “normale” che non avrei mai sentito mia, avrei provato qualcosa di diverso.
Rischiare e mettermi alla prova in mille contesti diversi, perché solo così avrei capito il mio lavoro e avrei trovato la mia strada. Uscire dalla mia maledetta comfort zone perché avevo vent’anni ed ero troppo giovane per iniziare a morire lentamente in mezzo a ciò che già conoscevo alla perfezione.
Fu così che, in una grigia mattina torinese, uscii di casa con un biglietto di sola andata per l’Australia.
Il Working Holiday Visa
Cercando una soluzione mi sono presto imbattuto nel Working Holiday Visa, un visto per gli under 30 che si può richiedere in Australia, Canada e Nuova Zelanda e che permette, per periodi di tempo dai sei mesi (in Canada) a un anno (Australia e Nuova Zelanda), di vivere e lavorare in questi paesi.
Ho immediatamente capito che era quello che faceva per me.
A 20 anni cosa avrei ottenuto restando in Italia a chiedermi nervosamente quale fosse la strada giusta per il mio futuro? Il mio timore più grande in quel momento non era perdere un anno di università, ma iniziare a sviluppare rimpianti.
Così ho ottenuto il visto e tre mesi dopo sono partito per l’Australia.
L’Australia
Non starò qua a dire quanto è bello il paese dei canguri, quanto sia tutto fantastico e incredibile.
In parte perché non sempre lo è (non esiste una nazione perfetta), ma soprattutto perché questo post non è l’elogio di un paese, né tanto meno una critica verso l’Italia. Voglio parlare solo dell’esperienza, che per me è stata rivelatrice e determinante.
Sono arrivato in Australia forte delle convinzioni che mi stavo portando dietro dall’Italia e che per fortuna si sono sgretolate nel giro di pochissimo tempo.
In Australia credevo di dover trovare un impiego e tenerlo stretto per tutta la durata del mio soggiorno. Ero un ragazzo che non aveva mai lavorato, che aveva solo studiato.
Ho trovato subito un lavoro e ho capito che dall’altra parte del mondo lavorare fin da giovanissimi è quasi scontato. Io ero l’immigrato arrivato da chissà dove che prova a farsi strada in un paese a lui sconosciuto. Credevo di potermela cavare con l’inglese ma poi una sera mi ritrovai a lavorare in un cucina e non capivo niente di ciò che mi veniva detto. Solo gli insulti, quelli sì.
Quell’esperienza mi spinse a prendere una delle decisioni migliori della mia vita: frequentare un corso di inglese.
Come un corso di inglese può cambiarti la vita
Vivere in un paese come l’Australia, a stretto contatto con ragazzi e ragazze da ogni parte del mondo, lontano migliaia di chilometri da casa, ti fa capire l’importanza di saper parlare inglese. Non ci sono alternative: se lo sai, riesci a interagire con le persone e cogliere opportunità, se non lo sai sei completamente tagliato fuori.
Ma frequentare un corso di inglese ha anche un altro effetto positivo oltre a migliorare le tue abilità linguistiche: ti fa capire che il mondo funziona diversamente da ciò che credevi.
Mi iscrissi alla scuola di inglese Kaplan International Languages. È una delle più rinomate del mondo e su questo blog ho già avuto modo di consigliarla più volte.
Kaplan propone corsi molto specifici, adatti a ogni livello di partenza, età e obiettivo. Ad esempio c’è un programma destinato proprio a chi vuole prendere un anno sabbatico all’estero. Io cercavo semplicemente di migliorare il mio inglese per avere più sicurezza nei miei mezzi. Feci un test e fui assegnato a una classe di livello intermediate.
Credevo di essere in quell’aula per imparare la lingua e invece imparai molto di più. Nella mia classe c’erano ragazzi e ragazze asiatiche che parlavano tre lingue e avevano due anni in meno di me. L’insegnante, neolaureata e preparatissima, ne aveva solo quattro in più ed era appena stata assunta a tempo indeterminato.
Così, mentre imparavo l’inglese nel miglior modo possibile (investire il mio primo stipendio in quel corso di inglese all’estero fu una decisione assolutamente vincente), aprivo gli occhi e scoprivo una grande verità: solo in Italia riteniamo giovane un 25enne, se non addirittura un 30enne.
Io mi sentivo un adolescente a 21 anni, ma in quel contesto mi sono scontrato con la realtà: c’è chi a quell’età lavora, studia e gira il mondo.
Per un mese avevo studiato, parlato e scritto in inglese. Quando conclusi e ottenni l’attestato, mi sentivo pronto a fare qualsiasi cosa. È davvero incredibile quanto la conoscenza di una lingua nuova possa darti in termini di autostima.
Ecco perché consiglio a chiunque di seguire un corso di inglese all’estero, specialmente se la prospettiva di andare dall’altra parte del mondo ti spaventa: se non vuoi arrivare in Australia o in Canada o negli Stati Uniti senza uno straccio di appoggio, prenota un corso di inglese. Con una scuola seria come Kaplan puoi anche alloggiare nel campus.
In ogni caso, partendo da un corso di inglese ti ritrovi a stretto contatto con tante persone come te, impari la lingua e cresci tanto come essere umano. Non a caso, dopo quel corso, ho iniziato a trovare lavori sempre migliori.
Viaggiare e lavorare è il miglior modo di scoprire il mondo
A Perth ho lavorato in fabbrica con una paga incredibilmente alta, poi sono stato assunto come cameriere in un locale che si affacciava direttamente sull’Oceano Indiano.
Servivo ai tavoli all’aperto e vedevo la spiaggia, il mare infinito, il sole, i surfisti. Quando staccavo percorrevo 50 metri a piedi ed ero direttamente sulla sabbia.
Un giorno, mentre ero seduto in spiaggia in attesa di iniziare il turno, mi sono chiesto cosa centrassi in quel contesto. Io, italiano accolto in un paese lontanissimo dal mio (non solo geograficamente), mi ritrovavo improvvisamente investito da un benessere che non avrei mai immaginato.
Stipendio alto, contratto in regola, possibilità di fare carriera partendo dal basso, l’oceano a due passi. Tutto quello mi sembrava un sogno, e invece era diventato realtà. Quel giorno pensai per la prima volta a quanto è importante esplorare la vita al di fuori della comfort zone.
In Australia ho avuto diversi lavori in due città diverse.
Ho girato, lavorato, studiato. Ho fatto tutto questo non tanto per i soldi (che mi hanno comunque permesso di ripagare tutte le spese e mettere da parte qualcosa), quanto per la volontà di scoprire, provare, capire.
Ho conosciuto persone e ho visitato luoghi meravigliosi, dal deserto all’immensità dell’oceano alle grandi metropoli, scoprendomi viaggiatore.
Ho imparato l’inglese e ho fatto tante cose che non avrei mai potuto fare a casa. Come comprarmi un’automobile con un solo stipendio, circostanza possibile solo dove il passaggio di proprietà costa pochi dollari.
L’importanza di scoprire mentalità diverse
Sono venuto a contatto con culture diverse dalla mia: mi sono sentito piccolo di fronte al collega 16enne australiano che mi dava ordini nel ristorante dove lavoravo come cameriere; per lui era un lavoretto estivo, per me era il primo grande impiego retribuito.
Sono rimasto affascinato dal modo di fare risoluto dei ragazzi sudcoreani, così sicuri del loro futuro. Ho provato invidia di fronte a un ragazzo svizzero che mi spiegava quanto adorasse il suo paese. Ripeteva in continuazione: “Bellissima l’Australia, eh! Ma la Svizzera…“.
Sono stato orgoglioso di vedere tanti miei connazionali che si spaccavano la schiena e cercavano di ottenere la residenza in un paese che gli aveva dato tanto.
Spesso non si rendevano conto che quel “tanto” era semplicemente ciò che meritavano. In un paese civile chi si impegna viene ricompensato. Loro si ritenevano privilegiati, molti australiani li consideravano poveri immigrati sfruttati.
L’esperienza in Australia mi ha chiarito le idee.
Tornato in Italia ho capito definitivamente che l’università non faceva per me. Sottolineo il “per me”. Non sto assolutamente dicendo che sia sbagliato frequentarla. Considerando le mie inclinazioni di vita, il mio carattere e mille altri fattori, non era quella la strada giusta.
Il Canada
Forse non lo sapevo ancora, ma ciò che desideravo ardentemente era un impiego da svolgere online, che mi desse la possibilità di viaggiare e lavorare, gestendo il mio tempo come meglio credevo.
Un capriccio? Lo avrei considerato anche io in questo modo prima di partire. Ma il Working Holiday mi ha anche insegnato che bisogna provare a fare ciò che ci rende felici, non solo quello che gli altri ci descrivono come “la scelta giusta”.
Ero da sempre attratto dal Canada, così un giorno mi sono detto: perché non fare il Working Holiday anche lì?
Poco dopo aver ricevuto il visto mi sono imbarcato per Vancouver. Ho vissuto un periodo molto intenso, sicuramente differente da quello australiano perché ero più consapevole, maturo e soprattutto umile. Ma ugualmente illuminante.
Pochi giorni dopo aver inviato i primi curricula sono stato assunto in una panetteria indiana nella zona nord di Vancouver, dove lavoravo dalle 02:00 alle 07:00 del mattino.
Quando finiva il mio turno uscivo in strada e restavo abbagliato dalla bellezza della mia semplicissima vita.
Fuori dalla panetteria c’era una lunga strada che si snodava tra il fiume e i boschi. In lontananza il ponte che avrei attraversato in bus per tornare a casa. Ogni mattina mi fermavo per qualche secondo ad ammirare la meravigliosa natura canadese che si risvegliava, mentre io mi preparavo ad andare a dormire.
A Vancouver ho lavorato anche come pizzaiolo in un locale frequentato da uomini d’affari in piena downtown e sono finito a raccogliere mirtilli nelle campagne del British Columbia durante i weekend.
Perché? Per provare, in fondo era proprio questo lo scopo del Working Holiday: mettermi alla prova, tentare, sperimentare.
Lavorare online
Quando sono rientrato in Italia ho deciso che mi sarei dedicato anima e corpo alla ricerca di un lavoro online.
Di fronte a me avevo diverse opzioni e un po’ di soldi accumulati durante le due esperienze all’estero. Mi sono messo a studiare ma non in senso canonico: la mia università è stata il web. I miei libri di testo sono stati i forum e gli ebook.
Alla fine sono riuscito a realizzare il mio sogno: fare della scrittura un lavoro. Prima articoli per siti web, oggi libri (e nel mio primo libro “Le coordinate della felicità” racconto proprio questo mio strano percorso).
E poi in Asia, dove ho provato per la prima volta a lavorare viaggiando, ho scoperto che c’erano tante persone come me, che avevano scelto di lavorare online, senza un luogo fisso in cui vivere e recarsi al lavoro ogni giorno.
Vederli all’opera, parlargli, constatare personalmente la loro esistenza, mi ha dato lo slancio necessario per completare il mio percorso.
Il Working Holiday mi ha cambiato la vita
Cosa c’entra questo con il Working Holiday? Tutto, perché se oggi ho un lavoro che mi soddisfa e ho una visione più ampia del mondo, diciamo anche che se oggi sono una persona più felice, è grazie a quel visto richiesto anni fa per l’Australia.
Senza quell’esperienza non sarei mai stato in Canada prima e non sarei mai stato in Asia dopo, oppure ci sarei stato come un turista.
Il Working Holiday mi ha insegnato invece a essere un viaggiatore, ovvero a muovermi per l’amore della scoperta, per il desiderio di capire e migliorarmi.
Mi ha reso una persona più ricca, mi ha aperto gli occhi eliminando pregiudizi e convinzioni infondate.
Mi ha permesso di diventare indipendente molto prima di quanto sarei riuscito a fare restando a casa, svegliandomi ogni giorno nello stesso posto, vedendo sempre le stesse cose e persone, pensando sempre nello stesso modo.
Il cambiamento parte proprio dal muoversi, dall’andarsene, dall’uscire dalla comfort zone.
Oggi posso dire con certezza che il Working Holiday ha cambiato la mia vita.