Quando ho guardato Nomadland ho pensato che fosse un film senza un filo conduttore.
La protagonista, Fern, è una donna che ci fa intuire di avere una storia forte alle spalle, ma non ce la racconta né ce la mostra fino alle ultimissime scene.
È una persona interessata e interessante, eppure non parla mai di sé. Preferisce ascoltare. Ama il silenzio, forse perché è l’habitat naturale per coloro che non trovano il proprio posto nel mondo.
Ha un van che è anche la sua casa, ma non si identifica in esso, non lo erge a simbolo della sua esistenza. Non ne è fiera, né se ne vergogna. Ci dà come l’impressione che nemmeno quel mezzo sia poi così importante per lei, nonostante tutto. Almeno finché non la lascia a terra si trova costretta a tornare. Allora sì che capisce quanto è fondamentale.
Nomadland: un film sul vagare
Fern fa una sola cosa per tutto il film, per il resto della sua vita: vaga. Senza una meta, senza un obiettivo, senza un piano.
Il film scorre seguendo il ritmo imposto dal vagabondaggio della sua protagonista: più volte lo spettatore si chiede se stia per accadere qualcosa. C’è finalmente un evento chiave che ci dice qualcosa di più su questa storia e su questa persona? Quel momento, però, sembra non arrivare mai.
Sia chiaro: la trama è piena di incontri, imprevisti e dialoghi intensi, ma non è lineare. Non c’è un punto di inizio e un traguardo da raggiungere. Non c’è nemmeno l’eroe che a un certo punto si trova dinnanzi a un ostacolo apparentemente insormontabile e trova una forza che non sapeva di avere.
Non c’è nulla di tutto questo. Nomadland è il racconto di un pezzo di vita, di un lungo viaggio senza capo né coda. Ed è proprio questo il motivo per cui è un film così speciale.
La regista Chloe Zhao è riuscita a raccontare qualcosa di così astratto e intangibile da essere quasi una questione spirituale: il vagare fine a se stesso.
Il nomadismo dell’anima di Nomadland
Quel vagabondare che avviene tanto sulle strade del mondo quanto su quelle del mondo che abbiamo dentro, quello fatto di ricordi, pensieri, emozioni, idee e un dialogo interiore difficile da placare.
Nomadland è un film in grado di raccontare il nomadismo dell’anima, quel desiderio incessante di muoversi e scoprire senza avere alcuna ambizione o aspettativa di trovare qualcosa. Una ricerca senza traguardo, né ricompensa, che i più giudicano senza alcun senso, una perdita di tempo, lo spreco di un’intera vita.
Eppure i viaggiatori e le viaggiatrici riconoscono in questo impulso esattamente il contrario: è ciò che dà un senso alla vita.
Nulla è più inafferrabile di un orizzonte, eppure noi continuiamo imperterriti a inseguirlo nel tentativo di avvicinarci a quella linea che divide il cielo dalla terra, che cambia sempre ma in un certo senso resta sempre una linea.
L’unico punto fermo in mezzo al cambiamento, spesso frenetico e doloroso. L’unico vero confine in un mondo pieno di confini immaginari.
A volte non importa quanto ci metti, né dove stai andando. A volte importa solo andare, muoversi
Fern, un’anima nomade
Non voglio dire nulla sulla trama di Nomadland. Innanzitutto perché non è così importante. La fotografia di questo film è meravigliosa, i dialoghi sono delicati e preziosi, la recitazione di Frances McDormand è commovente. Il viaggio è la storia. E un viaggio non si può raccontare a parole, si può osservare, capire, fare proprio. Un viaggio va vissuto.
Inoltre questo film non racconta ciò che accade, ma segue per un tratto del suo percorso su questa Terra un’anima nomade che, come succede a tanti, ha perso qualcosa di importante lungo la strada. Una donna che, forse non a caso, si chiama Fern, ovvero “felce”, una pianta che non ha né semi né fiori.
Vi consiglio di guardare questo film. Non perché ha ricevuto Oscar e riconoscimenti vari, non solo perché offre un’immagine molto accurata dei tanti contrasti che caratterizzano la società statunitense.
Io ho tre motivi diversi per cui dovreste guardare Nomadland.
3 motivi per cui guardare Nomadland
Il primo è che si tratta di un film fatto bene, con grande cura dei dettagli e scene che sanno toccare certe corde interiori che si fanno avvicinare raramente. Sia per il modo in cui è raccontata la natura umana, sia per i luoghi dove porta lo spettatore. Quelli che, come scrivo anche nel mio primo libro, sono così immensi da farti sentire piccolo, donandoti un po’ di sollievo dai tuoi problemi.
Il secondo è che si tratta di un film vero e onesto, che racconta la vita on the road come l’ho vissuta io in tutti questi anni, con tutte le difficoltà del caso, pochi comfort e tanti momenti di inaspettata meraviglia. In un’epoca in cui la Vanlife viene troppo spesso associata esclusivamente a Instagram e YouTube, Nomadland riporta questo stile di vita a uno stato di necessità viscerale. E questo ci conduce al terzo e ultimo motivo.
Questo film è una testimonianza delicata e profonda dell’essenza del nomadismo. È il racconto di quel desiderio di scappare che può nascere da un trauma, una perdita o una forte delusione
Quando vagare non è scappare, ma continuare a vivere
La retorica per cui “scappare non serve a nulla, i problemi te li porti dietro” racconta una verità parziale. A volte non si vuole scappare dalla sofferenza. Nomadland insegna anche questo: alcuni la affrontano direttamente, altri la soffocano nella routine di una vita che non cambia mai. Altri ancora, i nomadi, preferiscono tenersi il dolore dentro e portarlo lontano, per poterlo osservare con occhi sempre diversi. Per capirlo meglio, renderlo meno ingombrante.
Per loro, per quelli come Fern, vagare non è scappare. È una cura. È l’unica alternativa alla morte. È vita.