Quasi tutti hanno provato almeno una volta nella vita una sensazione di insofferenza verso gli smartphone. Sono strumenti straordinari che offrono opportunità infinite, ma a volte la loro presenza si fa ingombrante, soffocante e fastidiosa, perché per quanto piccoli ci danno l’impressione di essere assolutamente necessari.
Basta camminare per le strade di una qualunque città per capire quanto ne siamo diventati dipendenti: la quantità di persone con la testa china sullo schermo è in costante aumento. Molti sembrano non riuscire a vivere senza quel piccolo aggeggio tecnologico.
Sia chiaro, questa non è una critica. Non può esserlo perché non sono un eremita che vive sulle montagne, ho uno smartphone, un computer e sono iscritto a tutti i principali social network. Oltretutto non posso fare altro che ringraziare la tecnologia, visto che mi ha dato la possibilità di lavorare in remoto mentre giro il mondo.
Tuttavia, mi è capitato spesso di pensare che il ruolo del digitale stesse prendendo il sopravvento nella mia vita. Mi è capitato anche in viaggio, quando teoricamente hai luoghi nuovi da scoprire e l’ultima cosa che dovresti fare è stare attaccato allo smartphone.
Nello specifico ero a Kuala Lumpur, in Malesia, e non riuscivo a godermi l’esperienza del viaggio a causa del continuo affidamento alla tecnologia. Incredibilmente, in una città caotica, con mercati, grattacieli, parchi, negozi, templi e un traffico incessante, un posto dove c’è sempre qualcosa da fare, avevo la sensazione di non essere presente, di non riuscire realmente a vivere nel qui e ora.
C’era sempre una notifica, un messaggio, un bip che mi distraeva e spostava la mia attenzione sullo schermo. La colpa non era dell’oggetto – è uno strumento, non può avere colpe – ma dell’importanza spropositata che gli davo.
Un giorno si è rotto qualcosa: dopo aver controllato per l’ennesima volta lo smartphone in seguito all’ennesima inutile notifica, mi sono stufato. Non volevo che quell’oggetto avesse un potere così forte su di me, così l’ho spento, l’ho messo in tasca e sono tornato nell’ostello dove soggiornavo.
Lì ho deciso di fare un esperimento: un viaggio senza smartphone, social network e internet. Un’avventura “vecchio stile”, senza il supporto della tecnologia.
Per iniziare dovevo decidere solo una cosa: dove andare? Non volevo restare a Kuala Lumpur e avevo deciso che l’esperimento era già iniziato, quindi non potevo affidarmi allo smartphone e a internet per scegliere la destinazione successiva. Così è iniziato un viaggio nel viaggio che mi ha insegnato tante cose. Almeno sette.
7 COSE CHE HO IMPARATO VIAGGIANDO SENZA SMARTPHONE
1. L’importanza di parlare con le persone
Sapevo che da Kuala Lumpur potevo salire verso il Nord, dove ci sono piantagioni di té e isole paradisiache oppure scendere a sud, verso Singapore. La tentazione di accendere lo smartphone e fare una ricerca era forte, ma dovevo rispettare l’unica regola della mia sfida: non affidarmi alla tecnologia.
Così ho optato per l’unica cosa che potessi fare: uscire e parlare con le persone.
È incredibile quanto al giorno d’oggi consideriamo questa opzione come l’ultima spiaggia. Prima di tutto c’è internet, con il Dio Google pronto a rispondere a qualsiasi nostra domanda, poi ci sono i social network, dove troviamo persone vere le cui opinioni sono comunque filtrate dallo strumento tecnologico. Solo alla fine, come ultima opzione, scegliamo di parlare direttamente con un altro essere umano.
Ho chiesto al ragazzo australiano che lavorava alla reception dell’ostello in cui soggiornavo. Poi alla cameriera del ristorante in cui ero andato a cenare. Poi ad una coppia di backpackers che arrivavano dal nord del paese. Tre conversazioni sincere e dirette, che mi hanno insegnato la prima lezione: non dovremmo mai sottovalutare il valore del parlare con le persone, specialmente quando le loro opinioni sono disinteressate e frutto dell’esperienza diretta.
Ho ascoltato parole piene di vita e ho capito che non esiste algoritmo in grado di sostituire lo scambio umano. Una conversazione in cui guardi negli occhi l’altra persona ha un valore impareggiabile.
2. Ascolta tutti ma segui il tuo cuore
Dopo aver sentito più opinioni, non avevo dubbi: sarei andato a Penang. Mi era stato detto che era un’isola nell’estremo nord, al confine con la Thailandia. Mi era stata descritta come un punto di incontro tra diverse culture, da quella cinese a quella mediorientale passando per quella indiana. Mi avevano parlato di spiagge, sentieri di trekking e tanta natura. E soprattutto avevo scoperto che era una delle capitali culinarie del sud-est asiatico, un posto dove perdermi tra mille sapori e aromi differenti.
Non era una decisione immediata, perché tutti coloro con cui avevo parlato avevano anche sottolineato le meraviglie delle isole Perenthian, Cameron Highland e Singapore. In un’altra situazione avrei utilizzato internet per schiarirmi le idee ma in quel caso non potevo fare altro che seguire il mio istinto, e l’istinto mi diceva che Penang era la destinazione giusta.
Non c’era una motivazione logica, semplicemente mi attirava quel luogo di cui non avevo mai visto nemmeno una fotografia. Il mio cuore puntava in quella direzione e ho deciso di seguirlo. Dovremmo sempre farlo, perché a volte sbaglia ma ci indica sempre la strada della nostra felicità, invece spesso andiamo in overdose di informazioni con internet, in particolare sui social network: opinioni non richieste, giudizi che sembrano sentenze, punti di vista spacciati per certezze.
Nessuno ha la verità in tasca. Impariamo nuovamente a seguire le vibrazioni del nostro cuore invece di perderci nella confusione del web. Il cuore non mente e al termine dell’esperimento avrei capito quanto avesse ragione su Penang.
3. Impara a contare su te stesso
Non avevo idea di dove si trovasse la stazione degli autobus che mi avrebbe portato a Penang e non potevo affidarmi al GPS dello smartphone. Dopo aver preso una delle mappe gratuite a disposizione nell’ostello, ho iniziato a disegnare linee per capire come arrivarci.
“Non hai Google Maps?“, mi ha chiesto una ragazza, credo francese.
“Ho il cellulare rotto“, ho risposto. Mi ha guardato con un’aria confusa.
Il giorno successivo mi sono dovuto alzare un’ora prima del solito perché il rischio di perdermi in quella metropoli era concreto. Alla fine non è successo, ma camminando per Kuala Lumpur senza il supporto della tecnologia ho capito quanto ne siamo diventati dipendenti. Abbiamo smesso di guardarci intorno e affidarci alle mappe delle nostra mente, quelle su cui dovremmo porre dei riferimenti legati a determinati colori, profumi, dettagli.
Durante quella camminata verso la stazione dei bus mi è tornata in mente la domanda di quella ragazza in ostello: “Non hai Google Maps?“. E mentre cercavo disperatamente di capire il nome della via trafficata in cui mi muovevo con lo zaino sulle spalle, ho realizzato quanto siamo diventati pigri.
La nostra mente è viziata dal supporto incondizionato che ci offre la tecnologia. Sappiamo di avere un’entità superiore che ci aiuterà sempre, con le sembianze di uno smartphone. Ti sei perso? Lo tiri fuori e inizi a fare ricerche finché non ottieni la risposta che cercavi. Ma così la tua mente non è stata sollecitata e giorno dopo giorno diventerà sempre più debole.
Dovremmo invece guardarci intorno, memorizzare, imparare a cavarcela da soli e a contare su noi stessi. Avere maggiore consapevolezza di ciò che abbiamo intorno. Chiedi aiuto a te stesso quando sei in difficoltà, non al tuo smartphone.
4. Una vita senza immaginazione è una vita triste
Non sapevo che aspetto avesse Penang. Non l’avevo mai sentita nominare prima che mi venisse consigliata. Sapevo che era un’isola, ma non avevo nemmeno idea della sua dimensione. Così, sul bus che mi ha portato da Kuala Lumpur alla mia destinazione sconosciuta, mi sono dedicato a un’attività che avevo completamente dimenticato: immaginare.
Con la fronte appoggiata al finestrino mi sono perso mentalmente osservando il paesaggio scorrere di fronte ai miei occhi. E ho immaginato come potesse essere Penang, quanto fosse grande, come fossero le sue strade e i suoi abitanti, quale fosse il suo odore. Non potevo fare una ricerca su internet, non potevo cercare l’hashtag #penang su Instagram.
Potevo solo immaginarla, svegliare la mia fantasia e costringerla a rimettersi in moto.
Mentre il bus percorreva il ponte per arrivare sull’isola, ero eccitato. Vedevo quel luogo che avevo solo immaginato avvicinarsi sempre di più. Intorno a me c’erano backpacker e turisti cinesi, alcuni addormentati e altri attaccati allo smartphone, mentre io ero concentrato esclusivamente su ciò che si trovava a pochi chilometri di distanza. Per qualche motivo, seduto con gli occhi fissi sulla strada davanti al bus, mi sono sentito vivo più che mai.
Non stavo nella pelle all’idea di poter finalmente scendere e iniziare ad esplorare Penang e ho capito che il motivo principale per cui dovremmo distaccarci dalla tecnologia è che rende tutto più freddo. Una vita senza immaginazione è una vita triste. Torna a sognare ad occhi aperti e ti sembrerà di vivere il doppio.
5. La bellezza di vivere nel “qui e ora”
Penang non era come l’avevo immaginata. Pensavo a una piccola isola con qualche tempio e tanta vegetazione. In realtà è un microcosmo pieno di cose interessanti da fare e vedere. Senza saperlo, grazie al mio esperimento l’ho scoperta nel miglior modo possibile: perdendomi.
Non avendo a disposizione le mappe del mio cellulare, né le informazioni di internet o i consigli dei social network, non potevo fare altro che camminare senza meta e osservare ogni dettaglio. Qualche settimana prima avevo parlato con una ragazza italiana che ha percorso tutta l’India a piedi e mi aveva descritto i benefici di una pratica antica e pressoché sconosciuta in Occidente: la meditazione camminata.
Ho provato a metterla in pratica, concentrandomi solo ed esclusivamente sul momento presente e posizionando la mia mente su ciò che succedeva intorno a me, senza permetterle di rivolgersi al passato o al futuro. Non sono certo di esserci riuscito, ma limitandomi a camminare senza meta e senza distrazioni mi sono riempito gli occhi di tutto ciò che avevo intorno, anche i più minimi dettagli. Non avevo bisogno di scattare fotografie, ogni immagine era vivida nella mia mente.
6. Il valore di perdersi
Così, camminando per un paio di ore, son passato da Little India a Chinatown, dal quartiere giapponese a quello islamico. Ho pranzato come un re a un buffet indiano, ascoltando le storie del cameriere che mi raccontava la bellezza della regione da cui proviene. Ho visitato un tempio taoista chiedendo informazioni su quella religione all’anziana signora cinese all’ingresso. Ho scoperto per puro caso i celebri murales del quartiere artistico, senza farmi ossessionare da un selfie celebrativo. E mentre tornavo indietro ho osservato decine di musulmani pregare dentro una moschea semplicemente meravigliosa. La raffinata architettura, il prato impeccabile, il suono delle preghiere e la luce del tramonto: un momento magico e indimenticabile.
Ho concluso la mia serata come l’avevo iniziata: senza una meta precisa. Girando nei dintorni della guesthouse sono finito in un ristorante giapponese gestito da una coppia, lei americana e lui giapponese. Il cibo era ottimo e super economico. Abbiamo parlato per un po’ e alla fine mi hanno chiesto di lasciare una recensione online al loro locale.
“Se avessi lo smartphone con me lo farei… ma non lo accendo da tre giorni“, ho detto. Mi hanno guardato come se fossi un animale strano, ma anche con una certa curiosità. Lì ho avuto un’ulteriore conferma che tutti abbiamo provato almeno una volta quell’insofferenza.
Tornando verso la mia stanzetta mi sono reso conto che se avessi fatto delle ricerche su internet, visitare Penang sarebbe diventato come fare la spesa: fai questo, vedi questo e per finire mangia qua. Probabilmente non avrei visto la moschea illuminata dalla luce arancione del sole di fine giornata, né avrei mangiato in quel ristorante giapponese conoscendo quella simpatica coppia.
A volte dobbiamo perderci per vivere a pieno. Lasciarci alle spalle la certezza delle fredde informazioni e limitarci a camminare per il mondo, con occhi attenti, l’anima leggera e le porte del nostro cuore spalancate.
7. A cosa serve davvero la tecnologia
Quando ho riacceso lo smartphone, avevo decine di notifiche. La prima cosa che ho fatto è stata ignorarle, perché quel periodo di disintossicazione mi aveva fatto capire l’importanza di essere padrone della mia vita. Dovremmo essere noi a decidere cosa fare allo smartphone, non farci distrarre dai suoi rumori e dalle sue vibrazioni.
Ma da questo esperimento ho anche imparato un’altra lezione importante: la tecnologia è un valore aggiunto alla tua vita, se sai come utilizzarla. Se è vero che non dobbiamo esserne dipendenti, è altrettanto vero che non possiamo criticarla ciecamente.
Scattare fotografie in viaggio, ad esempio, è straordinario. Permette di fermare momenti indimenticabili, che con il tempo potrebbero sbiadire. Quando poi riguardi quegli scatti, anni dopo, viaggi mentalmente verso periodi e luoghi lontani, anche se sei a casa. Onestamente mi è dispiaciuto non poter scattare alcune fotografie durante l’esperimento: la moschea al tramonto, ad esempio, o le strade strette e caotiche della Chinatown.
E poi c’è la condivisione. Ci credo fortemente ed è questo il motivo principale per cui ho aperto questo sito, per cui ho avviato questo progetto: per condividere la bellezza del mondo, le mille forme della felicità e il valore delle scelte di vita alternative.
I social network meritano un capitolo a parte. Dopo averli snobbati a lungo, oggi posso dire che mi hanno dato la possibilità di condividere le mie idee e farle arrivare lontano. Così ho trovato coloro che avevo cercato invano nella vita reale: persone che sognano, leggono, scrivono, si ribellano, viaggiano, si appassionano e non si arrendono all’idea di un’esistenza infelice e priva di soddisfazioni. Anime simili alla mia, alimentate dalla stessa energia.
La tecnologia non è un male, lo diventa solo quando la utilizziamo nel modo sbagliato. È proprio grazie ad essa, a internet e ai social network che stai leggendo questo articolo. Magari non ti è piaciuto, magari ti ha ispirato. Ho solo una certezza: ci ha messi in contatto. Ovunque tu sia, chiunque tu sia.