Si sa che fotografia e viaggi vanno di pari passo. Le fotografie arricchiscono ogni viaggio e sono in grado di fissarne gli attimi migliori in maniera indelebile.
Ma sono anche una mezzo attraverso il quale molti si creano la possibilità di vivere viaggiando. È vero oggi come lo era in passato e fu proprio così che anche il leggendario Steve McCurry iniziò la sua affermatissima carriera da fotoreporter: con un viaggio.
I primi viaggi di Steve McCurry e l’amore per l’India
Nonostante precedenti studi in fotografia e cinema, il fotografo americano si laureò in teatro alla Pennsylvania State University. Fu proprio negli anni immediatamente successivi che McCurry partì per l’India, un paese che da sempre desiderava fortemente visitare.
Inizialmente doveva restare sei settimane nel paese per lavorare come foto-reporter. Ma come succede a tanti sognatori, l’India gli rubò il cuore e le sei settimane divennero due anni, un periodo nel quale non fece mai ritorno a casa.
“Il mio amore per l’India nasce dal fatto che ci convivono religioni diverse, la cultura è antica e al tempo stesso distinta dai paesi limitrofi”, disse presentando un libro dedicato all’India. “A colpirmi, come fotografo, furono gli estremi: i villaggi fermi alla metà del secolo scorso e le città moderne. Paesaggi, culture, geografie, persone e cibi tanto diversi da loro ma sempre aperti e ospitali. E poi il clima mite, non va sottovalutato”.
Steve rimase catturato dall’apertura verso la diversità nella cultura indiana e dalla bellezza dei suoi paesaggi: “Fu un incredibile cambiamento nella mia vita”, disse di quell’esperienza.
L’Afghanistan e i rullini cuciti dentro i vestiti
Spinto dalla voglia di scoprire e raccontare il mondo, alla fine degli anni ‘70 attraversò illegalmente il confine tra Pakistan ed Afghanistan insieme ad un gruppo di ragazzi provenienti dal Nuristan (una regione a confine con l’Afghanistan).
“Mi raccontarono dei loro villaggi distrutti dalla milizia afgana. Quando dissi loro di essere un fotografo, mi chiesero di seguirli per documentare quella che, poi, sarebbe diventata una guerra civile”, dice in un’intervista.
Era il periodo immediatamente precedente all’invasione sovietica e fu il suo battesimo nelle zone di guerra. I media internazionali spostarono rapidamente l’attenzione nella regione, quando McCurry si trovava già sul campo. Le sue foto iniziarono a venir pubblicate dalle maggiori testate mondiali.
Come riuscì ad accedere a quelle zone di guerra apparentemente off-limits per qualsiasi fotografo occidentale? Cucendosi i rullini all’interno dei vestiti e mentendo sullo scopo del suo ingresso in Afghanistan.
La guerra, la paura e le rapine
“Lavorare in zone di guerra significa imparare a convivere con la paura, con la possibilità di essere uccisi da un momento all’altro, in qualsiasi modo”, racconta Steve McCurry.
Più volte rapinato a mano armata, gli rubarono anche la macchina fotografica. In più occasioni fu svegliato in piena notte da individui che irrompevano nella sua camera d’albergo per rubargli i soldi.
“Molte volte ho pensato che stessi tirando troppo la corda. Molte volte ho pensato che non sarebbe finita bene”, ammette in un’altra intervista. Ma per lui raccontare quelle situazioni critiche era troppo importante. Il mondo doveva sapere.
“La fotografia e i viaggi non sono mai stati una questione di adrenalina. L’unica cosa che contava era la storia”.
Ragazza afgana, l’orgoglio di un intero popolo
Fu nel‘84 che McCurry scattò quella che senza dubbio è la sua fotografia più celebre, una delle più famose al mondo: “Ragazza afgana”.
Fu National Geographic a commissionargli un fotoreportage nei vari campi profughi allestiti lungo la frontiera afgano-pakistana.
“Mi accorsi subito di quella ragazzina. Aveva uno sguardo penetrante”, ricorda. “C’era una folla di persone, la polvere turbinava tutto attorno. Era ben prima dell’avvento del digitale, quindi non sapevi cosa sarebbe successo poi con il rullino”.
Per un attimo tutto fu perfetto. La luce, lo sfondo e l’espressione dei suoi occhi. Quello che più inorgoglisce McCurry è l’impatto che quella singola foto ebbe sul mondo.
“Quando lo scatto fu ripreso ovunque, arrivarono volontari per lavorare nei campi rifugiati”, disse. “Gli afgani erano orgogliosi di quella fotografia: la ragazza era povera ma mostrava un grande orgoglio, forza d’animo e grande rispetto per se stessa”.
Una vita in viaggio
Il suo portfolio, però, non include solo fotografie in zone di guerra. Steve ha viaggiato dalle giungle dell’Africa Centrale alle montagne del Tibet, sempre cercando di entrare in contatto intimo con le popolazioni e le persone che ritraeva nei suoi capolavori.
La sua è stata una vita costantemente in viaggio.
“La macchina fotografica mi fa da scudo quando fotografo situazioni orribili. Attraverso il mirino è più facile e meno angosciante guardare determinati scenari”, spiega.
“Ma quando non sono in zone di guerra, avere una fotocamera mi aiuta ad entrare in contatto con le persone, a coinvolgermi. Per fare buone fotografie devi passare del tempo con quelle persone, devi far sì che si fidino di te”.
Nonostante in alcuni lavori sia molto importante il livello di omogeneità tra gli scatti, McCurry ha a cuore ogni singola immagine. Per lui ogni singola foto deve avere un significato proprio.
Un’altra caratteristica che emerge dai suoi lavori, è indubbiamente la ricerca del contatto visivo. Un buon ritratto spesso è tale se, tramite lo sguardo del soggetto, crea un ponte diretto e pieno di significato con lo spettatore.
Steve McCurry è un maestro in questo. È attraverso lo sguardo che ci è permesso di capire il soggetto, di provare a leggere la sua storia.
Un fotografo-viaggiatore fino alla fine
Le abitudini sono difficili da abbandonare, ma Steve non è un nostalgico della vecchia maniera di fare fotografia. Riconosce nel digitale un enorme passo avanti. Sa che permette di scattare in condizioni prima inimmaginabili, specialmente per quanto riguarda l’esposizione degli scatti.
Ma anche se al giorno d’oggi tutti con il proprio smartphone possono scattare fotografie, “è solo rumore” – dice lui – “non affievolisce il valore di un grande fotografo, che riesce a rimanere memorabile”.
A scapito della sua non più giovane età (70 anni), Steve non ha alcuna intenzione di fermarsi. Vorrebbe visitare molti paesi, tra cui il Madagascar, la Mongolia, la Russia. È un personaggio che vorrei incontrare, perché simile a quelli che ho incontrato e di cui racconto nel mio libro. Persone che hanno scelto una vita in viaggio, ma soprattutto di fare della propria più grande passione un mestiere.
“Credo che quando trovi qualcosa che ami, lo devi fare per tutta la vita. Perché mai smettere di fare ciò che ami?”