Come ho capito che la mia vita era fatta per l’avventura, non per le quattro mura di un ufficio

Di Dino Lanzaretti

Nel mio piccolo paesello, alle pendici delle Dolomiti, tutto scorreva sereno e tranquillo. Avevo un bel lavoro in ufficio e il venerdì, il sabato e anche la domenica sera, immolavo interi stipendi sui banconi dei soliti quattro bar del paese.

Tutto sembrava perfetto, col tempo sarei diventato più maturo, avrei smesso di dilaniarmi nel weekend, avrei comprato una bella macchina, avrei aperto un mutuo per una casa con giardino e avrei atteso l’amore che prima o poi sarebbe arrivato.

Con serenità feci questa vita per diversi anni, fino a quando i lavori in corso nel cantiere fuori dalla finestra del mio ufficio terminarono e il nuovo cimitero del paese era pronto.

Un cimitero, il senso della morte e il senso della vita

Vennero il prete e un sacco di personaggi importanti alla cerimonia per l’inaugurazione del campo santo e, dal mio posto d’onore, assistevo quasi con disinvoltura alla lunga processione di macchine che si muoveva lenta sull’unica strada che divideva il mio ufficio da quei cipressi.  Da quel giorno in poi vidi sfilare tantissimi alti cortei.

La maggior parte delle volte che cercavo l’ispirazione per un problema al lavoro e guardavo l’orizzonte fuori dalla finestra mi trovavo davanti un funerale. Giorno dopo giorno, inevitabilmente, l’idea della morte fece breccia nella giovane testolina di un ragazzetto spensierato che si credeva immortale.

I miei pensieri passarono rapidamente da “in che locale andrò venerdì sera“ a “ma che senso ha la morte?”.

Per miliardi di persone ci pensa Dio a fornire le giuste risposte ma con me non funzionava per niente. Ero semplicemente terrorizzato all’idea della fine di ogni cosa e cominciai a riflettere su come stavo spendendo i miei preziosi minuti sulla terra.

La vita che stavo facendo era decisamente superficiale e il mio lavoro non mi dava grandi soddisfazioni. La riflessione che mi ripetevo ad ogni funerale a cui assistevo era: “Trascorrerò ancora quarant’anni dell’unica vita che ho su questa scrivania, poi attraverserò la strada per andare al cimitero dietro quei cipressi. Dentro una scatola”.

Mi sentivo in trappola, l’angoscia aumentava sepoltura dopo sepoltura fino a che non ce l’ho fatta più. Un giorno, seduto all’angolo del tavolo in cucina, mentre osservavo il televisore spento, mi sono detto: “Adesso parto”.

Che poi in quel momento significava “adesso scappo”.

Mollare tutto e scappare in Messico

Credevo che un biglietto per il Messico fosse una genialata. Cinque giorni dopo quella folgorazione sulla direzione che stava prendendo la mia vita, ero in Chapas senza nessun apparente motivo. Mi sentivo spaesato, pieno di paure, non avevo idea di che ci facessi lì, ma volevo provare un’altra vita.

Tutto quel mondo nuovo era troppo, era fagocitante, incredibile. Per puro caso conobbi altri viaggiatori più esperti e partì il meraviglioso vortice d’incontri, quasi surreali, che avviene solo in viaggio.

Per i primi tempi feci il classico turista tra le rovine Maya e le spiagge affollate ma con il  passare del tempo lasciai le mie vesti da turistello sprovveduto per itinerari molto meno battuti. Quotidianamente incontravo situazioni che mi costringevano a mettermi in discussione e ascoltavo i punti di vista di sconosciuti che erano capitati anche loro per caso li dov’ero io.

Una sera, in riva ad una spiaggia incontaminata, davanti ad un falò gigantesco fatto di tronchi mastodontici naufraghi di chissà quale foresta, giurai a me stesso che avrei fatto quella vita per sempre. Alla morte non ci pensavo più perché ero totalmente inebriato dall’intensità della vita e da ciò che mi stava accadendo intorno.

Tornai in Italia dopo sei mesi e mi resi conto che non ero più lo stesso. Ero partito per cercare la risposta ad una sola domanda ed ero tornato con centinaia di domande in più. Avevo cominciato a scalare i pendii della mia spiritualità, che prima neanche sapevo esistesse.

Di li a poco, giusto il tempo di racimolante un po’ di soldi, feci rotta verso l’India. Fu la svolta. Partito per scappare, ora ero un giramondo che inseguiva se stesso tra i paesaggi più belli del pianeta e in cerca delle persone più interessanti. Ero un pellegrino alla ricerca di qualche Dio che per fortuna non ho mai trovato.

Trovare la serenità grazie alla natura

Avevo cominciato ad andare in montagna come alternativa alle serate al bar con gli amici. Ormai annoiato a morte della solita routine dei fine settimana tutti uguali, avevo intravisto nella vita all’aria aperta una buona risposta alla mia ansia di non sprecare il tempo inutilmente.

L’unico sacrificio che mi veniva chiesto era di alzarmi all’alba, e io che solitamente andavo a dormire proprio a quell’ora, c’ho messo un bel po’ ad abituarmici. Quindi ho iniziato ad uscire molto più raramente e le cose intorno a me hanno iniziato a cambiare come per magia.

Avevo sostituito le infinite nottate con il gomito appoggiato al bancone a parlare del nulla più assoluto, con stupende giornate in silenzio tra le vallate e le cime delle montagne dietro casa. E poi non spendevo più interi stipendi tra discoteche e squallidi bar ma riuscivo a risparmiare un bel po’ di soldi per i miei viaggi futuri.

Il vero amore è nato quando questa passione della domenica si è fusa con il mio DNA mentre mi aggiravo da solo per le spettacolari vallate del Nepal durante un lungo viaggio in Asia ancora una volta all’inseguimento di me stesso. Vette così alte ed inaccessibili non le avevo mai viste e non ero neanche mai stato così a lungo inebriato dal piacere della fatica e dalla soddisfazione degli alti passi raggiunti.

Quando la montagna diventa parte della tua vita

All’epoca ero vergognosamente inesperto e chinavo lo sguardo davanti alla maestosità di quelle altissime vette. Mi chiedevo sempre “ma chi sono quegli uomini che osano scalarle?” La mia immensa fortuna mi ha permesso d’incontrare in quel viaggio degli alpinisti fortissimi e dalla pazienza infinita che mi hanno insegnato una marea di cose e indirizzato alla purezza della vita in montagna.

Per un vortice di casualità al mio ritorno in patria ho cominciato a scalare seriamente e l’anno seguente ero in Sud America con l’intenzione di salire sulle vette più alte del continente.  Da allora la montagna è diventata indissolubilmente parte della mia vita. Sono finito a vivere in un rifugio sulle Dolomiti a 2000m dove facevo il cuoco durante le stagioni estive e il resto dell’anno lo trascorrevo tra l’Himalaya e le Ande.

Ad oggi faccio davvero fatica a selezionare il ricordo più bello dei miei tanti anni passati tra le montagne e non me la sento di citare questa o quell’altra vetta. Se dovessi selezionare un’emozione in particolare è sicuramente l’arrivo al campo base dopo ogni salita.

Da buon codardo sono sempre andato in montagna con tanta concentrazione e tensione, dovevo sempre avere tutto sotto controllo e cercare di prevenire qualsiasi incidente. Una tale situazione mentale è difficile da mantenere quando la stanchezza ti strappa la terra sotto i piedi ma quando intravedevo le tende del campo base tutto svaniva.

Paure, preoccupazioni e anche la stanchezza sublimavano all’istante e allora sì che la cima era stata raggiunta. Citando i grandissimi alpinisti “la più bella cosa in montagna è portare sempre a casa lo zaino”.

Pedalando alla scoperta del mondo

Non ci voleva un occhio esperto per notare che non sarei mai stato un alpinista di livello e aver tentato di sciare per la prima volta a trent’anni non è stato di sicuro d’auto. Fatto sta che ho messo un po’ da parte le vette per cercare un’altra attività dove avrei potuto esprimermi con più facilità e con risultati più soddisfacenti.

Pedalare sulle strade più remote del pianeta faceva proprio al caso mio.

In sella alla mia bicicletta ho percorso 8.000 a km in Asia, 9.000 km dall’Italia all’Uzbekistan in tandem per accompagnare un ragazzo ipovedente, più di 8.000 km dalla Patagonia al Venezuela, 10.000 km da Panama a Vancouver… recentemente ho attraversato tutta la Siberia a -50°. Complessivamente ho pedalato per più di 70.000 km e ho trasformato il mio amore per l’avventura e per la scoperta del mondo in un lavoro.

Sono passati più di vent’anni da quel cimitero costruito di fronte al mio ufficio. Vent’anni in cui ho viaggiato in lungo e in largo su questo incredibile pianeta, prima come fricchettone che cercava l’illuminazione, poi come alpinista poi e oggi come cicloviaggiatore.

Vent’anni in cui, ogni giorno, mi sono reso conto che dare un senso alla mia vita significava stare là fuori, libero e lontano dalle quattro mura di un ufficio.

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Gianluca Gotto
Gianluca Gotto
Sognavo di lavorare viaggiando, oggi scrivo mentre giro il mondo. Ho aperto Mangia Vivi Viaggia per condividere la bellezza che abbiamo intorno e mostrare che spesso la felicità si trova nelle scelte di vita alternative

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