Gli ultimi due anni della vita di Christopher McCandless

Sono passati 25 anni dalla sua morte, ma Christopher McCandless resta uno dei personaggi che più hanno ispirato i viaggiatori di tutto il mondo. Ma non solo, perché il ragazzo che si faceva chiamare Alexander Supertramp non si limitava semplicemente a viaggiare: il motivo alla base della sua decisione di mollare tutto e partire senza una meta era quello di scoprire il senso della vita, cercando risposte a quelle domande esistenziali che tormentano milioni di persone.

Chris aveva deciso di non fare ciò che racconto anche nel mio libro “Le coordinate della felicità“: passare la sua vita a porsi quesiti fissando il soffitto prima di addormentarsi, dopo un’altra giornata uguale a tutte le altre. Al contrario, decise di mettersi in viaggio per scoprire la verità. Per questa ragione, è ancora oggi un esempio e una fonte di grande ispirazione non solo per chi ama viaggiare all’avventura, ma anche per tutti coloro che sentono il desiderio di vivere in maniera più consapevole.

La domanda, dunque, non può che essere una: cosa ha imparato nei due anni trascorsi a vagabondare per il Nord America? È impossibile dirlo con certezza. Tutto ciò che possiamo può fare è ripercorrere il periodo finale della sua esistenza, nel quale ha compiuto qualcosa di grande, che non verrà mai dimenticato.

Christopher McCandless ha imparato una grande lezione, che ha poi trasmesso inconsapevolmente al mondo intero. Questa è la sua vera storia.

1990, gennaio-giugno

In questo periodo Chris si laureò con il massimo dei voti alla Emory University con una tesi sulla Apartheid e sulla crisi alimentare africana. Il suo futuro era roseo: proveniva da una famiglia benestante, aveva ottime opportunità lavorative e la possibilità di costruirsi una vita ricca di successo.

Ma non era felice e soprattutto non era per niente realizzato. Così decise di cedere tutto ciò che possedeva e partire senza una meta prestabilita.

Si recò dai genitori e disse semplicemente: “Credo che sparirò per qualche tempo“. Poi andò in banca e dispose un bonifico verso la OXFAM, un’organizzazione che si occupa di combattere la fame nel mondo. Chris donò $20.000, ovvero tutti i soldi che aveva.

Partì con pochi contanti in tasca, la sua chitarra, un pentolino da campeggio e la sua vecchia automobile Datsun. Era il giugno 1990, l’ultima volta che i suoi genitori lo videro e gli parlarono.

1990-1991, luglio-gennaio

Come detto, Chris partì senza una meta precisa. Semplicemente si mise in viaggio verso Ovest, verso i deserti della California e dell’Arizona. Qui fu colto di sorpresa da un’alluvione, che danneggiò definitivamente il vecchio motore della Datsun. Scelse quindi di abbandonare il veicolo sul ciglio della strada, lasciando una nota che diceva: “Questo rottame è abbandonato. Chiunque riesca a tirarlo fuori di qui può tenerselo”.

Nell’automobile lasciò anche tutti i suoi averi: la chitarra, gli strumenti da campeggio, un rasoio elettrico, del riso da cuocere e $4.93. A quel punto era completamente libero.

Nell’agosto del 1990 prese il via il vero e proprio vagabondaggio, che coincise con il periodo in cui iniziò a presentarsi con il nome di Alexander Supertramp. Con sé non aveva niente se non un diario di viaggio, sul quale annotava (in terza persona) tutto ciò che faceva e osservava.

Senza un soldo in tasca, fu costretto a cercare lavoro presso una fattoria. Quando si rese conto che il proprietario era noto per non pagare chi lavorava nei suoi campi, gli rubò una bicicletta e si rimise in viaggio.

Successivamente fece l’autostop per migliaia di chilometri, incontrando sulla strada altri vagabondi come lui. Nel South Dakota incontrò Wayne Westerberg, un uomo che gli offrì di lavorare in cambio di qualche dollaro, un posto dove dormire e tre pasti al giorno.

Wayne diventò il suo migliore amico, ma un giorno fu arrestato per contrabbando di decoder televisivi, e Chris decise quindi di dirigersi verso Sud: destinazione Messico.

Attraversare il confine senza un dollaro e senza i documenti d’identità era quasi impossibile. Ci riuscì grazie a un kayak: pagaiò su un fiume che lo portò dagli Stati Uniti al Messico. Restò in questo paese per tre mesi, esplorandolo a bordo della sua piccola imbarcazione. Quando rischiò la vita in un tratto molto pericoloso, decise di abbandonarla e tornare negli Stati Uniti.

1991-1992, maggio-aprile

Tornato in Arizona, si prese una pausa dal suo vagabondare e iniziò a lavorare da McDonald’s. Ci rimase per qualche mese, giusto il tempo di accumulare i soldi necessari per tornare on the road. I suoi colleghi dell’epoca lo definirono “un tizio molto strano, ma anche molto professionale“.

Riprese a fare autostop senza una destinazione precisa, finché non affiorò nella sua mente l’idea di un viaggio estremo che sui suoi diari chiamò “La Grande Odissea in Alaska“.

Si diresse quindi in California con l’intenzione di risalire la West Coast americana fino all’Alaska. Sulla sua strada incontrò un uomo, Ronald Franz (a cui scrisse una lettera diventata poi molto celebre). Aveva ottant’anni e nessun famigliare. Trattò Chris come un figlio: gli diede un posto dove dormire e gli insegnò tutto ciò che aveva imparato lavorando per anni nel mondo dell’artigianato.

Nell’aprile del 1992, Chris si mise in viaggio per entrare in Alaska.

1992, aprile-luglio

l 25 aprile 1992 mise piede nello stato più settentrionale degli USA. Dopo aver trovato molte difficoltà nell’ottenere un passaggio, raggiunse l’inizio dello Stampede Trail, un percorso nelle terre più selvagge del Nord America.

Quando superò il fiume Teklanika era pieno di gioia ed entusiasmo, perché, come gli avevano riferito le pochissime persone incontrate sul percorso, superare quel confine immaginario significava entrare in un luogo quasi completamente disabitato, totalmente in mano alla forza della natura.

Superato il fiume, trovò un bus abbandonato che sarebbe diventato il simbolo della sua storia. Era il primo maggio 1992 e sul suo diario scrisse semplicemente: “Magic Bus Day!

Restò per due mesi nelle terre selvagge dell’Alaska, procurandosi da mangiare cacciando. Sparò a un alce e pensò di poterne conservare la carne affumicandola, ma dopo tre giorni era piena di vermi. Sul suo diario riportò un pensiero sinistro, come se fosse convinto che la natura stesse prendendo il sopravvento:

“Uccidere quell’alce è stato la più grande tragedia della mia vita. Vorrei non averlo fatto“.

Dopo due mesi, decise che era tempo di tornare alla civiltà. Aveva capito quello che doveva capire, aveva scoperto ciò che cercava. Voleva tornare a casa e tornare a riempire la sua vita con le altre persone. Voleva lasciarsi alle spalle la solitudine.

Presto si rese conto che non era possibile.

Il fiume Teklanika era in piena. Non poteva attraversarlo senza andare incontro a una morte certa. Già denutrito e debole, Chris tornò al Magic Bus con l’idea di riprovarci qualche giorno dopo, nella speranza che il corso d’acqua fosse più calmo.

1992, agosto

Sopravvisse fino ad agosto mangiando scoiattoli, rane e patate selvatiche. Aveva mangiato patate fin dall’arrivo in Alaska, ma in quel periodo dell’anno le trovò acide, non commestibili. Decise quindi di nutrirsi delle radici, non sapendo che contenevano un alcaloide che inibiva il processo di assorbimento del cibo. Si ritrovò impossibilitato a mangiare qualsiasi alimento, pur patendo una fame tremenda.

Era troppo debole per cacciare, e si era anche infortunato. Così iniziò a cercare bacche. Il 12 agosto lasciò un cartello sul Magic Bus con scritto:

“Attenzione visitatori: SOS. Ho bisogno di aiuto. Sono ferito, vicino alla morte, e troppo debole per tornare a casa. Sono da solo. Non è uno scherzo. Nel nome di Dio, vi prego di fermarvi e salvarmi. Ora sono fuori a raccogliere bacche, ma sono vicino e tornerò presto. Grazie. Chris McCandless”.

Si firmò con il suo vero nome perché l’avventura iniziata nel 1990 era ormai finita. Non era più il vagabondo Alexander Supertramp, era nuovamente Christopher McCandless.

La grande verità che comprese fu quella riportata nel film Into The Wild: la felicità è reale solo se condivisa.

Purtroppo, però, se ne rese conto troppo tardi: il 18 agosto, dopo una lunga sofferenza, morì di fame dentro al Magic Bus.

Sull’ultima pagina del diario scrisse: “Ho avuto una vita felice e ringrazio il Signore. Addio e che Dio vi benedica tutti!

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Gianluca Gotto
Gianluca Gotto
Sognavo di lavorare viaggiando, oggi scrivo mentre giro il mondo. Ho aperto Mangia Vivi Viaggia per condividere la bellezza che abbiamo intorno e mostrare che spesso la felicità si trova nelle scelte di vita alternative

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